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Trust, Danny Boyle racconta la sua versione del rapimento Getty

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Sembra ormai lapalissiano sottolineare quanto nell’ultimo ventennio la televisione abbia abituato il suo pubblico con prodotti di altissima qualità: I Sopranos, Breaking Bad e Mad Men sono i titoli che hanno innescato nella mente degli spettatori la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa di unico, e hanno dato inizio alla cosiddetta golden age, l’età dell’oro della tv.
Una delle caratteristiche peculiari di queste serie televisive consiste nell’utilizzare in ogni aspetto (dalla sceneggiatura, alla regia, fino alla fotografia e recitazione) un linguaggio tipicamente cinematografico, tanto che i “muri” da sempre volti a separare in maniera netta la televisione dal cinema sono ormai crollati. Attori e registi della settima arte si sono avvicinati al mondo seriale – prima considerato un genere minore – con grande entusiasmo, apprezzando in modo particolare la possibilità di approfondire, di dare luci ad aspetti o personaggi che, a causa del minor minutaggio a disposizione, sarebbero stati messi in secondo piano se non addirittura ignorati all’interno di un film.

Trust, la nuova serie tv antologica della rete via cavo FX (quello di Sons of Anarchy, The Americans e Fargo, per fare qualche nome) andata in onda in Italia su Sky Atlantic, può essere considerata l’emblema di questa tendenza. Non solo perché è stata creata e prodotta dalla coppia da Oscar per The Millionaire Danny Boyle e Simon Beaufoy e conta nel cast attori del calibro di Donald Sutherland, Hilary Swank e Brendan Fraser (che qui tocca mostra il suo vero talento), ma soprattutto perché è incentrata sulla vicenda del rapimento Getty, la stessa storia portata sul grande schermo pochi mesi fa da Ridley Scott e il suo Tutti i soldi del mondo. La serie offre quindi l’incredibile possibilità – già avvenuta in passato ma non a così pochi mesi di distanza – di vedere come due diversi approcci affrontano lo stesso episodio.

Tutti ormai sanno che negli anni Settanta il nipote dell’allora uomo più ricco del mondo J. Paul Getty venne rapito in Italia per mano della ‘Ndrangheta e di come il nonno si sia rifiutato a lungo di pagare il riscatto. In pochi però sanno di come il magnate petrolifero non apprezzasse i suoi figli, del suo harem di donne volto a soddisfare i suoi piaceri sessuali o del suo essere incapace di provare alcun sentimento nei confronti degli esseri umani; oppure di come il nipote avesse inizialmente inscenato il rapimento per estorcere un po’ di denaro al nonno e pagare i debiti accumulati con la sua vita di eccessi e dipendenze dai quali non riuscì ad allontanarsi nemmeno una volta tornato libero. Trust accende i riflettori sugli aspetti più intimi e laddove la pellicola di Scott si focalizza solo sul rapimento, la serie di Boyle e Beaufoy ricrea l’universo all’interno del quale si svolge la vicenda, dove il sequestro risulta essere solo il pretesto da cui partire per raccontare qualcosa di più grande (il rapimento avviene infatti solo nel terzo episodio e si risolve nel penultimo).

La sceneggiatura fa in modo che non ci sia un vero e proprio protagonista e dà spessore ad ogni personaggio che compare sullo schermo, identificandolo e rendendolo riconoscibile al pubblico: il Getty di Sutherland è avaro, lussurioso, viziato e ossessionato dal denare, il figlio John Paul Getty Jr si rifugia nelle droghe nella speranza inutile di ricevere l’approvazione del padre, l’ex moglie Gail (Hilary Swank) è tanto determinata quanto accecata dall’amore incondizionato che prova per il figlio, e il giovane hippy Paul (il talentuoso Harris Dickinson) persegue gli ideali peace and love che gli impediscono di provare rancore nei confronti della famiglia che lo ha abbandonato a sé stesso. A fare da contraltare a questo vortice di irrazionalità oltre ai rapinatori (tra cui spicca un Luca Marinelli semplicemente perfetto nel ruolo dello spietato di Primo) c’è la spalla destra del vecchio Getty, Fletcher Chase (Brendan Fraser) che in ben due episodi si fa narratore e sfonda in modo irriverente la quarta parete per parlare direttamente con lo spettatore ed evidenziare – arrivando quasi a ridicolizzarli – i retroscena più scottanti e assurdi dell’intera vicenda.

L’aspetto più interessante messo in scena in Trust però è l’incontro/scontro tra due culture totalmente opposte. Da una parte – introdotta dalle note di Money dei Pink Floyd – c’è l’anaffettiva dinastia Getty isolata nella fredda e solitaria Inghilterra e dipendente dal denaro, dall’altra c’è Prisencolinensinainciusol di Celentano con la sua Italia, sia quella della dolce vita romana ma soprattutto quella rurale che ha dato i natali alle organizzazioni malavitose, i cui componenti seppur senza scrupoli dimostrano di avere a cuore le tradizioni e soprattutto la famiglia.

Trust è l’ennesima conferma che la tv non ha più nulla da invidiare al cinema: sceneggiatura compatta senza buchi narrativi, eccellente riproduzione del contesto storico e culturale e ottime interpretazioni sia internazionali che italiane sono arricchite dalla firma di David Boyle, che trasferisce anche sul piccolo schermo le caratteristiche tipiche della sua filmografia, dall’importanza affidata alla musica di rendere a modo suo iconica ogni scena (come l’utilizzo del Nessun Dorma durante la preparazione del pagamento), fino all’uso dello split screen e di modalità di ripresa che alternano piani fissi, camera a mano e inquadrature dalle angolazioni più disparate.
Il regista di Trainspotting offre un punto di vista alternativo oltre che un’anima rock inedita ad una delle vicende più conosciute al mondo, e dimostra come l’originalità non risieda per forza solo nella storia raccontata, ma anche nel modo in cui questa viene messa in scena.

 

di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it

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