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The Handmaid’s Tale 2. L’incubo peggiore che potrebbe capitarci

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È in un futuro prossimo, è in un paese lontano, ma ci riguarda tutti: potrebbe avvenire presto. O è già avvenuto. E potrebbe essere anche qui. La forza di un racconto distopico è questa: creare un mondo lontano e dei fatti esagerati per cogliere nel segno criticità e pericoli del nostro oggi e della nostra società. E allora The Handmaid’s Tale – la cui seconda stagione è in onda su TimVision – è uno dei migliori racconti distopici che siano mai stati fatti. La seconda stagione è iniziata con la deportazione delle ancelle che si erano ribellate al sistema di Gilead, e con la loro punizione. Scene che evocano i momenti peggiori della Storia dell’uomo, i rastrellamenti e le deportazioni naziste. Sul volto delle ancelle, delle museruole: la privazione della parola, del volto, dell’identità. La privazione di qualsiasi diritto. L’incubo della forca. E la voce lirica, struggente di Kate Bush a rendere tutto più drammatico.

Per chi ancora non lo sapesse, The Handmaid’s Tale (I racconti dell’ancella) è tratto da un romanzo di Margaret Atwood. Si immagina un futuro in un paese di fantasia, Gilead, che corrisponde a una parte degli Stati Uniti divisi da un golpe e una guerra civile. L’infertilità è il problema del paese, e le poche donne fertili sono costrette a dedicarsi solo ed esclusivamente alla procreazione. Sono sacre, nella teoria. Sono private di qualsiasi diritto, prigioniere, schiave, nella pratica. Sono private anche nel loro nome. Così June, costretta a lasciare un marito e una figlia, e a votarsi alla causa, diventa Difred (Offred, in originale), cioè prende il nome dell’uomo da cui dovrà concepire un figlio. Alla fine della prima stagione abbiamo scoperto che June è incinta.

La seconda stagione di The Handamaid’s Tale riprende lo schema nella prima. Un’azione principale in un tempo che è il presente della storia, e una serie di flashback che, proprio come in Lost, ci riportano nel passato e assumono una serie di funzioni che rendono il racconto ancora più dirompente. I flashback riportano alla luce le backstory delle protagoniste, e ci dicono chi erano – chi sono – queste donne che oggi vediamo mortificate nella loro identità. Rendono ancora più dolente ed estremo il contrasto tra la vita che c’era prima e l’oppressione di oggi (ricordandoci anche di non dare così per scontati la libertà e i diritti che abbiamo). Ci rendono chiari, in una situazione di normalità, quei piccoli e poi sempre più grandi segnali che ci indicano come le libertà e i diritti stiano per svanire. E, infine, mettono davanti agli occhi di tutti la bravura di Elisabeth Moss, attrice che, nei due momenti della serie, è letteralmente due persone diverse. Nei flashback vediamo qualcosa che nel presente del racconto non vediamo mai. Un sorriso.

La seconda stagione di Handmaid’d Tale apre anche nuovi scenari. Uno è quello delle temute Colonie, terre ai confini dello stato di Gilhead, contaminate da radiazioni e inquinamento, dove le donne che si ribellano, o anche quelle che non sono più utili, vengono mandate ai lavori forzati e, in pratica condannate a morte. L’iconografia dell’opera, i potenti rossi e bianchi delle vesti che svettano su un mondo incolore, sfumano nel grigio, e la speranza si affievolisce sempre più, in un mondo da Dickens postmoderno. L’altro scenario è la mente, e la vita, di un altro personaggio, accennato e poi abbandonato nella prima stagione: la Emily (già Diglen e Disteven) di Alexis Bledel, qui nel miglior ruolo della sua carriera. La seconda stagione decide, giustamente, di accendere i riflettori su di lei, e sul suo passato. E vederla nella sua vita precedente è ancora più doloroso. Perché è una bellissima professoressa universitaria. Brillante, come i suoi occhi blu che vivono dietro quegli occhiali dalla forma rotonda. Libera, anche di amare un’altra donna, sposarla, e mettere su una famiglia con lei.

Ed è qui che ci fermiamo, ancora di più, a pensare. Perché, nel momento in cui Emily e la sua famiglia decidono di scappare da quelli che evidentemente non sono più gli Stati Uniti d’America, e viene negata l’evidenza davanti a loro – lei e la sua compagna per la legge non sono più sposate – cominciamo a pensare a cosa accade quando arriva qualcuno che mette in dubbio diritti che ormai dovrebbero essere acquisiti, che prova a restringere le libertà. Accade anche da noi. Non occorre andare tanto nel futuro e tanto lontano. Così come non occorre tanto per capire che la condizione odierna delle donne nella nostra società è ancora quella di essere considerate proprietà di qualcuno, o strumento di qualcosa, come femminicidi e violenze quotidianamente ci confermano. Ma The Handmaid’s Tale ci spiega bene anche cosa sia l’integralismo religioso: prendere precetti e scritture di una religione e farne regole e interpretazioni a proprio uso e consumo. The Handmaid’s Tale è La lettera scarlatta che incontra Lost che incontra 1984 di Orwell. È l’incubo peggiore che potrebbe capitarci in futuro.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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