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Altered carbon. Vivere in eterno. Ma non nel nostro corpo

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Il tuo corpo non è quello che sei. Lo muti, come un serpente muta la sua pelle. Dimenticatelo. Lasciatelo alle spalle”. La voce narrante di Altered Carbon, la nuova serie di Laeta Kalogridis (tratta dal romanzo noir cyberpunk di Richard K. Morgan) on line su Netflix dal 2 febbraio, ci avvisa subito. La tecnologia ci permette di vivere praticamente in eterno. La nostra mente non muore, e può essere trasferita in un altro corpo. Il corpo è solamente un involucro. Certo, il passaggio non è facile, e crea qualche scompenso: crisi d’identità, incubi, visioni. A meno che non si venga trasferiti nel proprio corpo, opportunamente clonato. Che vuol dire essere praticamente immortali. Takeshi Kovacs è un envoy, l’unico sopravvissuto di un’elite di guerrieri interstellari. La sua mente viene congelata per secoli, fino a che viene riportato in vita, in un nuovo corpo, e assoldato da Laurens Bancroft, un ricco magnate, perché scopra chi lo ha assassinato. Bancroft è stato ucciso, ma ora è di nuovo nel suo nuovo corpo, opportunamente clonato. Le vicende di Kovacs si intrecciano con quelle dell’agente Ortega, affascinante poliziotta di origine messicana.

Siamo nel futuro. Ma non è il futuro di Black Mirror, cioè il nostro mondo solo qualche giorno più avanti, con qualche novità tecnologica. È un futuro molto più lontano. Per capirci, quello di Blade Runner, dove è il concetto stesso di umanità ad essere messo in discussione. Il mondo immaginato da Philip K. Dick e Ridley Scott prefigurava un domani in cui l’uomo si è sostituito a Dio e si è preso il potere di creare e distruggere, di dare e togliere la vita. Creando degli esseri artificiali, i replicanti, meccanici e organici, simili all’uomo, ma più forti. E, all’inizio, con una data di scadenza. L’assunto iniziale di Altered Carbon è diverso, ma alla fine ci porta nella stessa direzione: le coscienze non sono intelligenze artificiali (ci sono anche quelle ma è un altro discorso), sono le nostre coscienze umane, in corpi che sono sempre umani, o clonati. Ma il risultato è sempre lo stesso: dare vita ad esseri che sono altro da noi, sfidare le leggi divine, o della natura se preferite, sfidare anche l’etica. Come dice Bancroft, “Dio è morto. Abbiamo preso noi il suo posto”.

Il riferimento a Blade Runner non è un caso. Altered Carbon vive nello stesso immaginario creato da Scott, tanto che a volte sembra quasi di guardare un remake o uno spin-off: macchine volanti, palazzi alti quasi all’infinito, la pioggia che sembra non finire mai (ma c’è una sorpresa al di là delle nuvole), neon e ologrammi, le città multietniche, i bassifondi sporchi e maleodoranti. Ritorna anche il discorso dei ricordi: qui non sono impianti, come quelli dei replicanti. Sono reali, ma arrivano spesso in maniera violenta, inaspettata. E permettono dei flashback, schema piuttosto in voga nelle migliori serie tv (Lost, The Handmaid’s Tale) che permette una dialettica tra passato e presente, cambi di ritmo, e di approfondire le backstory dei personaggi. In comune con Blade Runner Altered Carbon ha anche la declinazione dello sci-fi movie in noir: anche qui c’è un detective privato solo con se stesso (un Deckard o, se preferite, un Marlowe), una dark lady che sembra uscita da La fiamma del peccato, e altri topoi narrativi del genere.

Rispetto a un modello come Blade Runner, Altered Carbon spinge di più sul pedale del sesso, in linea con tutte le migliori serie tv degli ultimi anni (a nostra memoria, fa eccezione solo Stranger Things, per gli evidenti modelli a cui è ispirata…). Se il protagonista, Joel Kinnaman (era Will Conway, il candidato repubblicano rivale di Frank Underwood in House Of Cards), avvenente, freddo e perfetto per il ruolo, entra in scena nudo come il Terminator di Arnold Schwarzenegger, la regia indugia continuamente sui corpi – quasi tutti atletici, tonici, definiti – per ribadire la loro natura in un certo senso artificiale, la loro natura di mezzo e veicolo, di strumenti: di lavoro, di piacere, di aspirazione all’immortalità. Il contraltare femminile di Kinnaman sono la messicana Martha Higareda, tratti latini, corpo minuto e perfetto, che impersona Kristin Ortega, e la canadese Kristin Lehman, che è la glaciale e bollente Miriam Bancroft, la dark lady di cui sopra.

Altered Carbon è sicuramente una serie da vedere, per chi ama il genere. Perché offre un ulteriore step alle nostre riflessioni sulla realtà e il suo doppio. E perché, oltre ad essere visivamente affascinante, offre una serie di situazioni sempre spiazzanti, legate alla possibilità di passare in corpi diversi, e dal reale al virtuale. Il suo limite è però proprio quello di muoversi in un universo già esplorato a fondo da Ridley Scott e da tutti i film che hanno raccolto l’eredità di Blade Runner: il rischio, per la serie di Netflix, è di essere troppo derivativa (anche nei confronti di un altro classico, Strange Days). Ma, in fondo, i film di fantascienza che hanno provato a creare un futuro senza pagare il debito a Blade Runner si contano sulle dita di una mano. L’altro limite è la difficoltà a creare empatia con dei personaggi che finiscono per essere troppo poco umani. Paradossalmente Ridley Scott riusciva a farci sentire più vicini alcuni caratteri dichiaratamente artificiali, come i replicanti di Sean Young e Rutger Hauer. Resta il fatto che Altered Carbon è la fantascienza che ci piace. Quella che ci pone domande come questa. “Siamo ancora creature di Dio?

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 

 

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