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The Pink Floyd Exhibition. La leggenda del rock in mostra a Roma

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Ho sempre provato un certo oscuro piacere nella consapevolezza che avrebbero potuto unirsi al pubblico in uno dei loro concerti senza essere riconosciuti, un’impresa non indifferente”. Lo scrive John Peel, dell’Evening Standard, a proposito dei Pink Floyd. La sua frase campeggia in una delle prime sale di The Pink Floyd Exhibition – Their Mortal Remains, in scena al MACRO di via Nizza a Roma, che sarà aperta fino a luglio. È proprio così. I volti e i corpi dei Pink Floyd sono meno noti e meno iconici di molti altri corpi della musica rock. Ma l’arte dei Pink Floyd, negli ultimi cinquant’anni, è stata tanto iconica quanto indelebile a livello musicale. Dal celebre prisma di The Dark Side Of The Moon all’uomo in fiamme di Wish You Were Here, dal maiale volante di Animals all’indimenticabile muro attorno al quale ruota il concept di The Wall. Nella mostra del MACRO trovate tutto questo. È un’immersione totale, e multisensoriale, nella musica e nell’arte dei Pink Floyd e dei loro collaboratori. Strumenti, oggetti di scena, manifesti, bozzetti, e preziosi video con interviste: mentre guardiamo tutto questo, siamo avvolti dalle luci. E un’audioguida automatica ci accompagna con la musica, e le parole dei video, non appena ci avviciniamo a ogni postazione. Imperdibile, sia per gli appassionati, che vogliono rivivere i momenti topici della loro carriera, sia per chi li conosce in parte, e cerca un’occasione per scoprirli meglio.

Dopo una sala introduttiva che spiega l’humus culturale in cui fioriscono i Pink Floyd (la stampa alternativa, la Pop Art, la moda psichedelica della Londra degli anni Sessanta), la storia dei Pink Floyd inizia con lo sfortunato genio di Syd Barrett, primo frontman della band: nell’estate del 1967 la sua salute mentale comincia a peggiorare, e nel gennaio del 1968 viene chiamato un suo amico d’infanzia per non fargli sentire la pressione. È David Gilmour. Quando, ad agosto, esce il secondo album, lui non è più nella band. Da qui inizia il viaggio negli album dei Pink Floyd. La loro propensione per le lunghe suite li rende perfetti per un mercato dove gli album cominciano a superare i singoli in fatto di vendite. The Piper At The Gates Of Dawn, del 1967, il loro primo album, viene registrato agli studi di Abbey Road mentre i Beatles stanno registrando Sgt. Pepper, e usa molti effetti della library della EMI, come le campane tubulari. Il disco seguente, A Saucerful Of Secrets (1968), è l’unico che contiene composizioni sia di Barrett che di Gilmour, e alle canzoni in stile giocoso del primo aggiunge nuove dimensioni, come l’antica poesia cinese e lo spazio. I Pink Floyd decidono di concentrarsi solo sulla registrazione e spingono sul pedale della sperimentazione: Ummagumma, del 1969, ha un assolo di batteria di Nick Mason lungo sette minuti. Mentre inizia la collaborazione con il geniale studio Hipgnosis di Storm Thorgerson e Aubrey Powell, i Pink Floyd possono fare qualunque cosa. Atom Heart Mother, l’album del 1970, quello con la famosa mucca in copertina, riceve un’accoglienza fredda dalla critica, ma è il loro primo disco a raggiungere il primo posto in classifica. Accanto al rock ci sono lunghi ensemble cinematografici, colpi di pistola, nitriti di cavalli, ottoni e intermezzi corali. La mucca? Un’immagine scelta da Thorgerson perché assolutamente inaspettata in un disco rock. La sperimentazione continua con Meddle, del 1971, che ha un lato occupato da una sola canzone, Echoes, mentre nel disco si sentono rumori di sonar e versi di gabbiano. In Seamus c’è addirittura un cane che viene portato in studio ad ululare.

Dopo il famoso Live At Pompeii, un live senza pubblico con il Vesuvio sullo sfondo, i Pink Floyd entrano nella leggenda con The Dark Side Of The Moon, un album che li vede tornare alla forma canzone, incentrato sui problemi quotidiani: soldi, morte, violenza, follia. L’idea è di Roger Waters, e la band arriva in studio con i pezzi già rodati dopo essere stati suonati a lungo dal vivo. La copertina di Storm Thorgerson è una delle più iconiche della storia della musica. “Questo prisma che si rifrange in uno spettro appartiene a tutti”, dichiarò. A 40 anni dalla sua uscita, The Dark Side Of The Moon continua a vendere 7mila copie alla settimana. Il disco trasforma i Pink Floyd da gruppo cult a una delle band di maggior successo al mondo. Per dare vita al successore di un successo così clamoroso, provano a spiazzare ancora, registrando suoni con vari oggetti casalinghi. Ma poi scartano tutto. David Gilmour comincia a strimpellare qualche accordo sulla sua nuova chitarra, e Roger Waters scrive un testo struggente, dedicato a Syd Barrett. Nasce Wish You Were Here, che dà il titolo all’album omonimo, che è un’osservazione sugli aspetti più meschini dell’industria musicale, l’avidità, l’ambizione, l’alienazione. La natura spietata di quel mondo è rappresentata dalla copertina, firmata sempre Hipgnosis, in cui un uomo prende fuoco dopo aver concluso un affare (si può vedere l’intervista all’uomo nella foto, che prese davvero fuoco), mentre nel retro di copertina, ispirato a Magritte, c’è un salesman senza volto. Wish You Were Here è il disco dell’assenza. Che, all’improvviso, durante le registrazioni, diventa presenza: a sorpresa Syd Barrett fa una visita allo studio.

L’alienazione sale ancora. Roger Waters, durante i concerti in stadi sempre più grandi e impersonali, comincia a sentire un muro tra lui e il pubblico. Fino al celebre sputo ad alcuni fan che stavano cercando di salire sul palco a Montreal nel 1977. Nasce così The Wall, del 1979, concept album (è la storia di Pink, travagliata rockstar che ha perso il padre in guerra e vive un presente problematico) che dà vita, nel 1980-81, a un ambizioso spettacolo rock teatrale, durante il quale veniva costruito e poi demolito un muro. È proprio The Wall, insieme al precedente Animals, del 1977, a fare la parte del leone nella mostra: ai due dischi è dedicata la stanza più grande, dove svettano gli incredibili burattini gonfiabili creati per il tour originale di The Wall, e per lo spettacolo di Roger Waters del 2010-13. Ci sono la testa mostruosa del burattino della moglie, la stanza del motel dove Pink canta Nobody Home (ispirata al Motel Tropicana di Los Angeles dove era di stanza l’equipe), il maestro gonfiabile, che incombe sulla scena, vicino al pupazzo di Pink, che giace ai piedi del muro durante Hey You. Accanto agli enormi pupazzi scorrono le immagini d’animazione di Gerald Scarfe, che saranno al centro anche del film di Alan Parker (con Bob Geldolf) del 1982. I gonfiabili erano i grandi protagonisti degli show di quell’epoca: introducevano un elemento fantasy, ma erano anche pratici, e permettevano di interagire in maniera flessibile. Ma accanto a quelli di The Wall ci sono anche quelli del tour di Animals, il disco del 1977, passati ugualmente alla storia. C’è il famoso maiale che, nella foto di copertina, fluttuava sopra la centrale elettrica di Battersea Park (durante le session fotografiche l’ancoraggio si ruppe e l’enorme pallone a forma di maiale volò sopra lo spazio aereo dell’aeroporto di Heathrow, e fu ritrovato da un contadino del Kent…): alto nove metri, e ribattezzato “Algie” è il protagonista di uno show in cui i gonfiabili sono pecore, figure umane (il padre, enorme, ci accoglie all’ingresso della mostra), televisori e frigoriferi da cui spuntano i vermi. L’idea di Animals, nato durante l’avvento del punk e della crisi politica e industriale, e caratterizzato da suoni più duri dei dischi precedenti, è quella orwelliana de La fattoria degli animali, in cui ogni animale rispecchia un carattere umano. The Final Cut, l’ultimo album di Waters con i Pink Floyd, incentrato sulla condanna alla guerra, chiude la stanza di Animals e The Wall e guida verso gli ultimi capitoli del gruppo, A Momentary Lapse Of Reason e The Division Bell, i sontuosi live che li hanno seguiti, e i relativi album dal vivo, Delicate Sound Of Thunder e Pulse.

Se la stanza di The Wall e Animals è l’apice della mostra, c’è un’altra stanza che conquisterà gli appassionati di musica. È quella legata alla tecnologia. Accanto ad alcuni strumenti musicali ad alto tasso scenografico, come una batteria decorata con la Hokusai Wave, usata da Nick Mason dopo un tour in Giappone, e il gong sinfonico Paiste 36, usato nel film The Wall, con l’effigie sinistra dei due martelli, creati sempre da Gerald Scarfe, oggetti e interviste ci mostrano la fascinazione che Waters e soci hanno avuto per i primi sintetizzatori, e come siano stati la prima band a creare il suono del futuro. Sentiamo parlare Alan Parsons, il loro tecnico del suono. E vediamo Richard Wright rievocare la nascita di canzoni come The Great Gig in The Sky e Breathe, ispirata da un solo accordo di Miles Davis, da Kind Of Blue. Essere partecipi, anche se per pochi secondi, e decenni dopo, del processo creativo di una canzone, non ha prezzo. Prima di uscire, vediamo l’esibizione di Waters, Gilmour, Mason e Wright al Live 8 del 2 luglio 2005, la prima volta insieme dopo 24 anni. Tutti e quattro riuniti per un’ultima volta. Se la loro vita fosse un film (e probabilmente lo è stata), si chiuderebbe su questa scena.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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