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David Lynch, quel James Stewart venuto da Marte

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Un James Stewart venuto da Marte. Così Mel Brooks definì David Lynch, all’inizio della sua carriera, quando lo incontrò e decise di affidargli la regia di The Elephant Man. Vide quel suo aspetto serio, compito, quella camicia con l’ultimo bottone sempre allacciato, e anche quel milkshake al cioccolato che gustava ogni giorno, puntuale, alle 14.30. L’eleganza innata, quegli occhi piccoli e penetranti, blu, profondissimi, pieni di curiosità, sono gli stessi anche oggi. David Lynch è stato il protagonista di un incontro ravvicinato alla Festa del Cinema di Roma, dove ha ricevuto il premio alla carriera. L’abito nero e la cravatta nera lo rendono elegantissimo, ma anche molto simile a Gordon Cole, il funzionario dell’FBI che ha riportato sullo schermo con la terza stagione di Twin Peaks.

La sua cortesia, il tono basso della voce (proprio il contrario di Gordon che, essendo sordo, usa un tono altissimo), la sua riflessività (da anni pratica la meditazione trascendentale) ne fanno una persona amabile (e amatissima). Sembra quasi impossibile che dalla mente, dai sogni di questa persona nascano incubi come quelli che da anni ci fanno compagnia. “Amo i sogni. Amo la logica dei sogni” spiega Lynch. “A volte vediamo qualcosa di cui sappiamo il significato ma non siamo in grado di esprimerlo a parole. Questo lo possiamo fare con il linguaggio del cinema. Amo le cose astratte e le cose concrete. Amo il cinema che abbia concretezza e astrazione. È un po’ come quando cerchi di raccontare un tuo sogno a un amico può ascoltarti, ma non capirà mai le tue sensazioni”. Chi ha visto i suoi film, soprattutto cose come Mulholland Drive e Inland Empire, o anche l’ultimo Twin Peaks può capire bene da dove arrivino le visioni di Lynch. E come nascano le sue storie. “Ci vengono in mente idee, le vediamo sul nostro schermo mentale e lo scriviamo a parole” spiega. “E allora riemerge l’idea. Le idee nascono come frammenti: penso a questi frammenti di idea come a un rompicapo, un puzzle di cui uno ti lancia un pezzo. E allora tu cominci a scrivere. Da qui nasce la sceneggiatura, e il film.”. “Non so come vengono le idee” aggiunge. “Un giorno sei lì e non c’è l’idea, continui a non averle, improvvisamente sono lì che si materializzano”.

Philadelphia e Los Angeles. Fuliggine e luce
Il primo incubo di David Lynch si chiama Eraserhead – La mente che cancella: è la storia di una relazione (tra Henry, il suo attore feticcio Jack Nance, e la moglie ritardata), tra paure della paternità, incubi tra sesso e malattia, in una cornice di rumori e architetture industriali. “La mia ispirazione è stata la vita di Philadelphia” ha raccontato Lynch a Roma. “Una città sporca, corrotta, violenta, sempre in preda al terrore. E folle. Amo la sua architettura, i colori degli interni delle stanze, che erano verdi, le proporzioni strane delle stanze, i mattoni coperti di fuliggine. Questo ambiente caratterizzato dalla presenza delle fabbriche. È a Philadelphia che è nato il mondo di Eraserhead”.

David Lynch non è ispirato solo dal brutto. Ma anche dal bello. Dopo Philadelphia la sua vita è stata Los Angeles, la sua nuova casa, la sua musa, la Mecca del cinema. Inland Empire, Strade perdute e Mulholland Drive trattano tutte di Los Angeles. “Sono arrivato a Los Angeles nel 1970, da Philadelphia” rievoca l’artista. “Ricordo di essere arrivato a L.A. durante la notte” rievoca Lynch. “Il mattino dopo uscii dall’appartamento e per la prima volta vidi quel sole, una luce che mi fece quasi svenire. Di L.A. amo la luce, il fatto che non se ne vadano i confini, e quindi non abbia limiti, e questo significa la possibilità di seguire i propri sogni. Amo il fatto che sia la casa del cinema dell’età dell’oro, e sembra che ritorni quando fioriscono i gelsomini”.

Tra tutti i suoi film, il suo amore per Los Angeles è evidente più che mai in Mulholland Drive, sogno/incubo che si insinua tra i luoghi della vecchia e della nuova Hollywood e, pur nel suo procedere “al contrario”, nel suo muoversi tra sogno e realtà, nel suo continuo ribaltamento, si avvicina a quel Viale del tramonto di Billy Wilder, uno dei film che Lynch ha scelto di proiettare a Roma per raccontarsi. “Billy Wilder era straordinario per il senso dei luoghi” riflette Lynch. “In Viale del tramonto c’è una casa bellissima che ha personalità, ci riporta all’età dell’oro del cinema, anche se sta crollando. È un fenomeno organico. La bellezza è indubbia, nell’immagine di questa casa: gli arredi, i costumi, la musica: tutto questo fa poi emergere l’età dell’oro del cinema”. “Tutti desiderano qualcosa in un anelito che non viene mai realizzato” aggiunge. Ed è la stessa cosa che accade in Mulholland Drive. Viale del tramonto, poi, ci svela anche qualcosa su Gordon Cole, il personaggio interpretato dallo stesso Lynch in Twin Peaks. “C’è una scena in cui Cecil B. De Mille dice: chiama Gordon Cole al telefono” fa notare il regista. “A Los Angeles Billy Wilder lavorava alla Paramount, e guidando su Melrose, come su qualunque altra via che va da est a ovest, incrociava immancabilmente due strade: Gordon e Cole. Secondo me Billy prese il nome da quelle due strade”.

Lynch e la televisione. Odi et amo
Proprio Mulholland Drive e Twin Peaks sono i capitoli di una storia tormentata, quella tra David Lynch e la televisione. Twin Peaks, la serie che a inizio anni Novanta deflagrò sulle nostre televisioni, cambiando per sempre il nostro modo di percepire il mezzo televisivo, fu cancellata alla fine della seconda stagione. Mulholland Drive nacque come pilota di una nuova serie televisiva, che doveva raccontare L.A. e il mondo del cinema: decisero di non produrla, e Lynch, con la produzione di Alain Sarde e Canal Plus, lo completò, e ne fece un film perfetto. L’ultimo capitolo è dei giorni nostri: il network televisivo americano Showtime ha prodotto la terza stagione di Twin Peaks: David Lynch ha avuto carta bianca, e ne ha creato qualcosa che è completamente diverso sia dalle prime due stagioni, che da qualunque altra cosa che si vede oggi in tv: un vero e proprio film, diviso in 18 parti. Per Lynch è una vittoria. “Creare per la tv e per il cinema è esattamente la stessa cosa” ha spiegato. “C’è una piccola differenza. Sulla tv via cavo c’è la possibilità di continuare una storia, mentre un film finisce. Sappiamo che quando si produce per la tv rispetto al grande schermo la qualità delle immagini e del suono sono inferiori. Ma stanno facendo grandi miglioramenti”.

Televisione vuol dire anche girare in digitale, tecnica che Lynch aveva già sperimentato nel suo ultimo film per il cinema, Inland Empire. “La celluloide è bellissima, ma è pesante, si sporca, si rompe” è l’opinione di Lynch. “Il mezzo digitale si sta avvicinando sempre di più alla celluloide, ma col digitale si possono fare milioni di cose dopo aver girato. Con il digitale si schiude un mondo meraviglioso. Puoi manipolare l’immagine come se stessi manipolando la tela. E quindi questo schiude infinite, meravigliose possibilità”.

La pittura e Federico Fellini.
Non è un caso che Lynch nomini la tela. Lynch è anche un pittore, e un appassionato d’arte. A Roma ha parlato dei quadri di Francis Bacon (“amo la sua distorsione della figura umana, amo il modo in cui esplora i fenomeni organici”) e delle sculture di Edward Kienholz (“è un altro artista che esplora in maniera straordinaria i fenomeni organici. Mi piacciono le opere in tre dimensioni. A volte sulla tela pratico dei fori e inserisco qualcosa, o aggiungo qualcosa sulla superficie sulla quale ho dipinto perché emerga qualcosa”). Chi conosce David Lynch lo sa bene. I suoi primi corti nascevano dalla transizione dalla pittura al cinema, e vennero definiti “scultura in movimento” e “biologia creativa”: un bassorilievo con teste danzanti afflitte da conati di vomito, un bambino che annaffiava un germoglio per farlo diventare una nonna, e altre cose di questo tipo.

Anche questi sono sogni. E non è un caso che uno dei film proposti a Roma da Lynch sia 8 e ½ di Federico Fellini, un autore che sui sogni ha fondato il suo cinema. “Nel 1993 stavo girando una pubblicità con Tonino Delli Colli come direttore della fotografia” ricorda Lynch.Fellini era in un ospedale del nord e sarebbe arrivato a Roma, e avevamo deciso di andarlo a trovare. Ricordo che era una serata molto calda. Entrai in questa stanza, c’erano due letti singoli e in mezzo Fellini su una sedia a rotelle davanti a un tavolino. Mi sono messo a chiacchierare con lui, gli ho tenuto la mano, abbiamo parlato con per mezzora. Mi ha detto che quello che stava accadendo nel cinema lo intristiva: una volta gli studenti ne parlavano, poi l’entusiasmo si era spostato verso la tv. In seguito Vincenzo Mollica mi disse quello che Fellini aveva detto quando avevo lasciato la stanza: è un bravo ragazzo”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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