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Suburra – La Serie. Roma ti divora come un barracuda

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Chi vive nella zona di Roma tra Cinecittà e Tor Vergata, o chi ci arriva dal GRA all’altezza dell’uscita per Napoli, non può fare a meno di non vedere un’enorme costruzione bianca, a forma di vela, o di pinna di squalo. È la costruzione nota come “Le Vele di Calatrava”, nata per essere la città dello sport, e diventata una meravigliosa costruzione incompiuta, una delle tante contraddizioni di Roma. Quelle che racconta Suburra – La serie, di cui la costruzione di Calatrava è una delle location più ricorrenti, la prima produzione italiana di Netflix, con Cattleya e Rai Cinema. La serie prende spunto dal libro di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, e dal film omonimo di Stefano Sollima. Se la storia del film è ambientata nel 2011, sette giorni prima della caduta del premier italiano, la serie – un prequel – vive nel 2008, nei venti giorni tra l’annuncio delle dimissioni del sindaco di Roma e la loro entrata in vigore. In quel lasso di tempo devono concludere i loro affari Samurai (Francesco Acquaroli), criminale che controlla tutta Roma, e che vuole impadronirsi dei terreni di Ostia – in parte di una famiglia locale, gli Adami, in parte del Vaticano – per costruire un porto in collusione con la Mafia. Per questo ha bisogno di chi si muove in Vaticano, la consulente Sara Monaschi (Claudia Gerini), e di chi si muove in Campidoglio, Amedeo Cinaglia (Filippo Nigro) presidente della commissione edilizia. A occuparsi di quei terreni del Vaticano, però, c’è anche monsignor Theodosiou, dedito a festini a base di droga. Proprio in uno di questi, mentre il prete si sente male, si incontrano tre giovani apprendisti criminali: Aureliano Adami (Alessandro Borghi), il futuro Numero 8 del film, Spadino Anacleti (Giacomo Ferrara), erede di un clan di Sinti, e Lele Marchilli (Eduardo Valdarnini), figlio di un poliziotto, spacciatore in erba desideroso di trovare la propria fetta nella golosa torta che il crimine romano sta apparecchiando.

Suburra – La serie ricalca la struttura del film da cui prende vita. C’è la deadline della “scadenza” di un governo, che rende ogni mossa affannata e senza appello. C’è una nottata di sesso e droga (lì culminava con una morte, qui con un infarto). C’è un gioco di rimpallo tra Vaticano (nel film solo accennato), politica (con il Campidoglio che prende il posto di Montecitorio, e con un’amministrazione presumibilmente di sinistra, vera grande assente del film di Sollima, al posto della destra), criminalità e salotti. Ogni puntata inizia dalla fine, con una sequenza a effetto, e torna in flashback a un giorno prima, dove tutto ha avuto inizio. Rispetto al film, la serie non può contare su due giganti come Pierfrancesco Favino e Claudio Amendola. Il primo perché il suo personaggio, Malgradi, non è ancora entrato in scena. Il secondo è sostituito nel ruolo di Samurai da Acquaroli, che ne fa un’interpretazione sua, ottima, ma non è Amendola. Il trait d’union tra film e serie sono appunto Borghi, che è un Numero 8 ancora giovane, senza tatuaggi e barba, con i capelli ossigenati, Ferrara, nel ruolo di Spadino, e Adamo Dionisi, nel ruolo di Manfredi Anacleti, spietato boss dei Sinti. È proprio Borghi, occhi lucidi e affebbrati, mascella serrata, parlata strascicata, il vero motore del film. E, forse, la prossima star del nostro cinema.

Suburra è uno di quei prodotti che sono il segno dei tempi, coglie tutto il sentimento di sfiducia nel sistema e nella politica che c’è nell’aria, e che a Roma raggiunge l’apice. Non è però un’opera di denuncia, non segue le orme dei Rosi e dei Petri, quanto piuttosto quella dei poliziotteschi italiani anni Settanta, di cui Sollima (e Placido, che firma i primi due episodi) è l’erede. Non si denuncia, non si fanno nomi, ma si suggerisce, si evoca, si sottintende. Suburra – La serie, è il tentativo di fare l’ultimo dei nostri Romanzi Criminali, nuovi gangster (tv)movie all’italiana che, dopo Romanzo Criminale e Gomorra, hanno dimostrato di essere prodotti vincenti e premiati dal nostro pubblico, e anche da quello estero.

Quello che Placido, Molaioli e Capotondi (un piacere ritrovarlo alla regia di un’opera narrativa dopo La doppia ora) hanno creato è un mondo a sé stante, non realistico (anche se legato alla realtà), un mondo mitico e letterario. È la Roma che “ti divora come un barracuda” (come cantano Piotta e il Muro del Canto in 7 vizi Capitale, sigla della serie). Uno mondo dove ogni mossa è fatta in funzione di un fine, di un tornaconto, soldi o potere che sia. Ogni rapporto sentimentale è funzionale a qualcosa. Non è una relazione, non è un matrimonio: è una società per azioni o, se volete, un’associazione a delinquere. Che forse sono la stessa cosa. L’unico amore vero è forse quello tra Aureliano e Isabelle (la bellissima Lorena Cesarini), o tra Franco e il figlio Lele, e per questo sono destinati a finire. Anche il rapporto tra Cinaglia e la nuova moglie, nel momento in cui lei gli fa capire di approvare la sua nuova vita, non è quello che ci era sembrato. Quello di Suburra è un mondo di orfani, di figli senza padri e senza madri, di solitudini che si sfiorano senza incontrarsi veramente. Suburra, la serie come il film, è una tragedia elisabettiana ambientata sul Tevere.

È un film dove tutto è nero, e se è tutto è nero il rischio è di non distinguere tratti e forme. I personaggi positivi, se ci sono, sono marginali, o destinati a cambiare. Prendiamo il Cinaglia di Filippo Nigro nell’episodio “Un altro”. Basta che indossi un paio di scarpe nuove, nere e lucide, al posto delle sue vecchie Clark lise, e si guardi allo specchio nella sua nuova “divisa”, perché cambi immediatamente ruolo. Come accadeva a Viggo Mortensen in Good, appena indossava la divisa nazista. In Suburra apparenza e sostanza non sempre collimano. Se per Cinaglia il cambio di immagine è anche quello della sua essenza (e un cambio lo avrà anche Lele nell’ultima puntata, sempre davanti a uno specchio), Samurai è il contrario: un look anonimo, da uomo comune, una vita semplice, tra il maneggio e gli scooter, nascondono il più potente dei criminali, l’amministratore di Roma. Così come Roma vista dall’altro è una città meravigliosa e, scendendo nelle strade, è qualcosa di molto diverso. E in fondo è come “Le Vele di Calatrava” a Tor Vergata: una costruzione alta, bianca e maestosa vista da lontano. Ma dentro, come vediamo in molte scene del film, ha un cuore di fango e cemento. È arida e vuota.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 

 

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