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Il Permesso – 48 ore fuori. Un film di Claudio Amendola

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Seconda appuntamento alla regia per Claudio Amendola che affronta una prova ancor più grande.
Il regista/attore si cala completamente in questa doppia veste, affermando che “Il permesso – 48 ore fuori” era la storia giusta.
I personaggi e la trama sono tipici di un genere di cinema che ha avuto la fortuna di interpretare da attore in numerosi film e che in un certo senso lo rappresenta, ma forse la cosa che più lo ha convinto è il comune denominatore che spinge i personaggi, perché, nonostante sia una storia dura e anche violenta, il sentimento che li muove è sempre l’amore; per un figlio, per una donna, e l’amore da trovare.
Ad affiancarlo in questa nuova avventura: Luca Argentero, Giacomo Ferrara, Valentina Bellé, Antonio Iuorio, Valentina Sperlì e molti altri.
Distribuito da Eagle Picture, al cinema dal 30 marzo 2017.

Sinossi
A Luigi, Donato, Angelo e Rossana sono state concesse 48 ore di permesso fuori dal carcere di Civitavecchia. Per motivi differenti si trovano in galera, dove devono scontare il loro debito con la giustizia. Ma adesso sono fuori, e devono decidere in che modo spendere il poco tempo che gli è stato concesso. Vendetta, redenzione, riscatto, amore. Una volta usciti ognuno di loro dovrà fare i conti con il mondo che è cambiato mentre erano dentro.
Al suo secondo esperimento dietro la macchina da presa, Claudio Amendola dirige un cast poliedrico, su cui spicca un’incredibile performance di Luca Argentero, in un film, prodotto da Claudio Bonivento, nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo, già autore di Suburra e Romanzo Criminale, con la collaborazione dello stesso regista e di Roberto Jannone.

Conversazione con Claudio Amendola
Come si è sviluppato questo progetto?
È nato grazie a Claudio Bonivento, un produttore illuminato con cui collaboro da 30 anni, che si è innamorato di un soggetto scritto da Giancarlo De Cataldo, anche autore, con me e Roberto Jannone, della sceneggiatura. Quando Claudio mi ha proposto la sua storia è stato amore a prima vista. L’impatto è stato fortissimo, cercavo da tempo un racconto che fosse giusto per il mio secondo film da regista, dopo La mossa del pinguino, ma mi sono mosso con i piedi di piombo fino a quando questo soggetto ha centrato esattamente quello che volevo: ho iniziato così a lavorare a un copione che col tempo è diventato sempre più simile a me e al cinema che mi piace vedere da spettatore. Gli sceneggiatori ed io ne abbiamo realizzato varie stesure, fino ad arrivare a quella definitiva che abbiamo portato in scena. In seguito abbiamo iniziato la scelta degli attori, che si è rivelata decisiva, a partire dall’idea di stravolgere l’immagine abituale di Luca Argentero, rendendolo piuttosto irriconoscibile: per interpretare il ruolo di un pugile sconfitto dalla vita, Luca ha perso otto chili di peso e ne ha acquistati sei di muscoli grazie a una lunga, accurata e super professionale preparazione fisica. Il suo personaggio, Donato, è un uomo ferito dentro, dolente, buio, oscuro, con un passato e un presente forte e duro e Luca ha aderito con entusiasmo alla difficile sfida che lo aspettava. Penso in particolare ai momenti in cui si ritrova coinvolto in un combattimento clandestino di boxe senza esclusione di colpi, in alcune sequenze molto forti, di grande impatto. Per quello che mi riguarda, la scelta di recitare nel film, oltre a dirigerlo, è dipesa soprattutto dal fatto che mi sarebbe dispiaciuto regalare a un altro attore il bellissimo ruolo che ho deciso di interpretare, quello di Luigi, un uomo stanco, spento e provato, che nel corso della vicenda ha il percorso di un vinto: è in galera da 17 anni, esce grazie a un permesso per 48 ore e si ritrova costretto per amore di suo figlio a tornare sui suoi passi con difficoltà e dolore. Insomma, per questo secondo film da regista ho potuto confrontarmi con un’altra bella storia che mi piace definire “western” perché ha come protagonisti due eroi solitari che vanno fieramente incontro al loro destino.

Che cosa si vedrà in scena?
Raccontiamo i due giorni di libera uscita di quattro detenuti di età diverse, che non si conoscono tra loro e che chiedono e ottengono un permesso per uscire dal carcere in cui sono rinchiusi per vari motivi. Poco a poco scopriremo perché escono e che cosa faranno una volta fuori dal penitenziario. Il mio personaggio, Luigi, per esempio, è spinto dall’urgenza di dover risolvere un serio problema: salvare un figlio 25enne che si è cacciato in guai seri cercando di ripercorrere, senza averne la stoffa, le sue orme nel mondo della malavita. Anche il Donato interpretato da Argentero, nonostante si muova in contesti duri e violenti, viene a sua volta spinto ad agire dall’amore, perché deve salvare sua moglie che è stata costretta a prostituirsi da uomini che facevano parte del suo giro, prima che lui finisse in galera: è in prigione da diversi anni e deve scontarne ancora molti, esce con l’intenzione di salvare la sua donna ma si ritroverà a doverla vendicare. Gli altri due detenuti in libera uscita sono due ragazzi, Rossana e Angelo (Valentina Bellè e Giacomo Ferrara): lei è una rampolla dell’alta società, ribelle fin dall’adolescenza, che, provocando un enorme scandalo, è stata arrestata con dieci chili di cocaina e sta scontando una lunga pena. Rossana è sfinita, non ne può più di quella vita e quando si ritrova provvisoriamente libera è determinata a non tornare più dietro le sbarre, sicura che la ricchezza della sua famiglia la salverà e la proteggerà. È una ragazza spigolosa e scostante, ma nel corso degli avvenimenti si finisce con l’innamorarsene, perché porta con sé anche una grande fragilità che maschera e nasconde come può.
La sua storia e quella dell’altro giovane in libera uscita, Angelo, si intersecano, a differenza di quelle dei detenuti adulti, che si snodano autonomamente: Angelo è stato arrestato in seguito a una rapina e durante la sua prigionia si sta specializzando in “verde ornamentale”, coltivando la speranza, una volta scontata la sua pena, di convincere i suoi amici di scorribande ad allestire una cooperativa e a cominciare una nuova vita normale. Scoprirà in seguito che i suoi complici non vogliono affatto redimersi dalla vita criminale e studiano invece un progetto molto diverso per lui e per i due giorni di libertà che lo aspettano. L’incontro tra i due ragazzi, che rappresentano la parte meno “nera” della vicenda, sarà salvifico per entrambi, ma l’intera sceneggiatura è costruita attraverso un montaggio alternato delle quattro storie principali che rendono il film particolarmente forte, potente e con un grande ritmo.

Diceva che aspirava a realizzare un genere di film che le piace vedere da spettatore, in che senso?
Il permesso – 48 ore fuori è rigorosamente un film di genere, una categoria che nell’ultimo anno è stata finalmente “sdoganata” anche in Italia, ed è un film che mi rispecchia molto, è il cinema che mi piace vedere e che volevo portare in scena. Mi piacciono molto certi film stranieri di questo tipo, quelli americani ma anche quelli francesi, che hanno una tradizione molto forte, e questo mi fa sperare per la diffusione internazionale della nostra storia, che potrebbe essere ambientata in qualsiasi luogo del mondo: le carceri esistono ovunque così come esistono le dinamiche che i personaggi principali del racconto scatenano.

Le piacciono i libri di Giancarlo De Cataldo e le trasposizioni che ne sono state tratte per il cinema e per la fiction tv?
Ho sempre letto le opere di Giancarlo, come Romanzo Criminale, con appassionata voracità e l’anno scorso ho recitato, diretto da Stefano Sollima, nella trasposizione cinematografica del suo libro Suburra. È un tipo di letteratura che apprezzo, mi sono interessato molto e documentato a lungo sulle trame dell’Italia degli ultimi 30/40 anni: penso ai volumi di giornalisti come Giovanni Bianconi e Carlo Bonini, ricchi di coraggioso impegno civile e sociale.

Che cosa l’ha interessata di più del Luigi che interpreta?
Mi è piaciuta molto soprattutto la sua stanchezza di fondo, il suo essersi arreso: in passato era stato un criminale spietato e violento, ma poi il carcere lo ha piegato e lui vorrebbe soltanto scontare la sua pena e trascorrere in pace il resto dei suoi giorni con i pochi amici che gli sono rimasti. È un uomo piuttosto stanco e provato dalla vita, ma viene costretto, suo malgrado, a riprendere le armi.

Come si è ritrovato a recitare con Luca Argentero dopo Noi e la Giulia?
Quando ho proposto il nuovo progetto a Luca, lui è stato molto generoso e si è subito messo in gioco volentieri. Abbiamo condiviso la sensazione che poteva trattarsi di una bella occasione per uscire dai canoni del già visto. Prima di questo nostro nuovo film, Argentero aveva recitato soprattutto in commedie dove appariva bello e figo, invece qui si è completamente stravolto nell’aspetto, dando prova di una grande maturità d’attore: il suo è un personaggio drammatico, molto scuro e violento, si tratta quindi di vesti in cui non lo abbiamo mai visto prima.

Come ha scelto i suoi attori?
Ho notato in Valentina Bellè una particolarità che mi ha incuriosito, è una delle atttrici/rivelazione dell’anno, un’interprete che amo definire “scorretta” (e lo dico nell’accezione migliore del termine). L’ho scelta subito perché è davvero sorprendente per vari motivi: ha girato ultimamente i nuovi film di Francesca Comencini e dei fratelli Taviani, ha recitato in qualche fiction, ha frequentato scuole di recitazione in Italia e all’estero, può contare su solide basi di studio e su una bellezza naturale, è particolare perché a volte è bellissima e altre meno, è una ragazza che ti colpisce e non ti lascia indifferente. Giacomo Ferrara invece era stato l’interprete del personaggio di Spadino nel film Suburra, lo studiavo da tempo. In un primo momento l’avevo scelto per il personaggio di mio figlio ma, andando avanti con i provini per gli altri ruoli, non ero soddisfatto delle scelte fatte fino ad allora e quindi, su consiglio di Claudio Bonivento, abbiamo sottoposto Giacomo a un provino per la parte di Angelo e lui lo ha superato alla grande, dimostrando molta personalità. A quel punto ho ricominciato a cercare l’attore giusto che interpretasse il ruolo di mio figlio e l’ho trovato in Simone Liberati, che in Suburra era il “braccio destro” di Alessandro Borghi. Abbiamo fatto in generale un bel lavoro con la casting Gabriella Giannattasio, trovando interpreti intonati e pertinenti ai ruoli, come Ivan Franek, Antonino Iuorio, Valentina Sperlì, che in scena è la madre di Rossana, e Alessandra Roca che interpreta la moglie di Luigi.

Conversazione con Luca Argentero
Ha capito subito che Il permesso – 48 ore fuori poteva rappresentare per lei una bella opportunità?
Claudio Amendola ed io abbiamo recitato insieme sia sul set del film in cui lui ha esordito alla regia, La mossa del pinguino, sia tre anni fa su quello del noir Cha Cha Cha di Marco Risi, e abbiamo cementato presto un rapporto profondo basato su stima e fiducia reciproche. Mi è sembrato evidente che questa volta lui si sia voluto fidare di me offrendomi un’opportunità importante, e mi ha fatto molto piacere che io gli sia sembrato serio e affidabile nell’ambito di un progetto che fin dal primo momento lui ha vissuto, come è sua abitudine, con enorme passione.

Come ha affrontato questo nuovo ruolo così insolito?
La necessità di un’adeguata preparazione fisica ha reso l’esperienza un gioco bello da praticare, intenso e gratificante, come mi era successo per esempio in occasione di una recente miniserie tv sul pugile Tiberio Mitri o di Cha Cha Cha: la possibilità di lavorare su di sé e sul proprio corpo rappresenta una parte divertentissima del nostro mestiere, mi piace allenarmi, l’idea di entrare in palestra alle 7,30 del mattino e dire a se stessi “lo sto facendo per lavoro” è la conferma del privilegio che ho nel coltivare un mestiere fortunato che mi piace e mi diverte tanto.

Chi è Donato, il personaggio che lei interpreta?
È un tipo piuttosto chiuso e “bloccato”. Forse tra i quattro detenuti che escono per le loro 48 ore di libertà, impegnati a risolvere questioni di amore, di vita personale e di affetti, è quello che non ha lottato minimamente per uscire, non ha mai avuto notizie da nessuno all’esterno del carcere, nemmeno da parte della donna che ama, non sa nulla di lei, sa solo che il gruppo di persone che facevano parte del suo entourage criminale aveva il compito di sorvegliarla. Uscito dalla prigione, Donato apprende che la sua donna si prostituisce, ma deve scoprire come, dove e quando, e allora per cercarla intraprende una sorta di discesa agli inferi.

Come si è preparato al ruolo?
La preparazione è stata incentrata su una dieta rigida e un duro esercizio. Mi sono allenato a Torino con alcuni ragazzi che insegnano Thai Boxe in modo da poter dimostrare in scena di sapermi muovere durante i combattimenti a mani nude, mi sono sottoposto a una lunga dieta – direi però che più che perdere chili li ho “trasformati” – e poi mi sono preparato con Claudio Pacifico che era lo stunt coordinator, sia per le coreografie sia per le scene particolarmente movimentate”.

Che tipo di relazione si è stabilita tra lei e Claudio Amendola durante le riprese?
Un rapporto di fiducia, creatività comune, divertimento ed entusiasmo, sono rimasto sul set soltanto dieci giorni sui quaranta previsti per le riprese ma quando ero presente eravamo tutti sempre molto concentrati. La storia mostra in scena quattro personaggi principali con quattro storie da raccontare. Il mio, Donato, appare in poche scene di transizione, ma ogni sequenza è molto significativa, ogni giorno avevo da girare scene importanti e ho lavorato sempre con entusiasmo e dedizione.

Che cosa l’ha colpita di più di Amendola regista?
Claudio è molto sicuro di sé, non ho mai avuto la sensazione di avere di fronte a me un regista che non sapesse quello che voleva, lui lo sapeva benissimo, era sempre determinato e preciso, ed è riuscito a costruire un bellissimo lavoro di squadra con il direttore della fotografia Maurizio Calvesi e un bel team di persone che gli consentiva di realizzare ogni volta esattamente quello che voleva. Tutte le scene che ho girato erano fondamentali per l’economia del racconto, ma ero molto concentrato soprattutto sulla giornata del match clandestino di pugilato. È stata filmata in un’unica sequenza, mi piaceva molto lavorare con il fisico, ero molto soddisfatto del traguardo raggiunto con gli allenamenti, ma il giorno dopo la fine delle riprese, la possibilità di stapparmi soddisfatto una prima birretta dopo tanto tempo di astinenza ha rappresentato per me un gesto molto liberatorio.

Secondo lei può esserci uno spazio adeguato oggi in Italia per i film di genere come Il permesso – 48 ore fuori?
Non credo che Claudio Amendola abbia scelto di girare questo film grazie al trend positivo che ultimamente il cinema di genere vive in Italia, lo ha fatto solo perché si è imbattuto in una storia che gli piaceva e che voleva raccontare: possono esserci buoni spunti di noir, giallo o fantasy, ma se qualcuno ha una buona storia da portare avanti è sempre il momento giusto. Se si abitua il pubblico a una differenziazione maggiore di proposte, questo può rappresentare uno stimolo notevole.

Lei si sente a suo agio nel recitare in qualsiasi genere di film?
Finora ho interpretato quasi sempre delle commedie. Devo confessare che quando recito in contesti brillanti mi ritrovo alle prese con meccanismi più consolidati e mi sento a casa, ma mi reputo fortunato perché mi viene offerta spesso la possibilità di poter variare, è uno stimolo che permette di scoprire cose di te stesso che non conosci. Ho già recitato in una ventina di film, ma in generale mi sento ancora all’inizio della mia carriera e se proprio dovessi pensare a qualcosa, penserei soprattutto a scegliere bene i prossimi venti. Più si sperimenta e si cambia e più si è preparati a qualsiasi eventualità.

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