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Mostra “Uneasy Dancer” di Betye Irene Saar a Fondazione Prada

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Da recenti studi americani, si sa oramai, che dividere biologicamente le persone in gruppi caratterizzati da differenze di colore della pelle (o da altre caratteristiche) è profondamente scorretto. Anche dal punto di vista scientifico. Le razze quindi non esistono anche se la storia dice il contrario. E questo è quanto mai palese, visitando l’emozionante mostra dell’artista americana (noventenne quest’anno) Betye Irene Saar. La mostra, che è stata inaugurta mercoledì scorso alla presenza di nomi noti dell’arte e della cultura a  Fondazione Prada  a Milano, ha come titolo: “Uneasy Dancer”, ovvero danzatrice incerta come ama definirsi l’artista stessa.

Photo Credit @ www.fondazioneprada.org

Definita una mostra “antologica” è curata da Elvira Dyangani Ose e propone per la prima volta in Italia il lavoro dell’artista americana in ben 80 opere tra cui assemblage, collage, installazioni e sculture, tutti realizzati tra il 1966 ed il 2016. Betye Irene Saar nata a Los Angeles, California, è un’artista americana molto nota dagli anni ’70 in poi, in modo particolare per la tecnica dell’assemblaggio di vari materiali. Proprio in quegli anni, fece parte del movimento Black Arts Movement che cercava di abbattere muri, sfidare la società americana nei suoi miti e nei suoi stereotipi più profondi, dall’interno. Forse per questo venne frainteso o manipolato il suo lavoro più noto “la liberazione di Zia Jemina” (l’archetipo della famosa Mammy del film Via col vento), chissà.

Photo Credit @ www.fondazioneprada.org

E cosi, nelle sale messe a disposizione dalla Fondazione Prada milanese, ecco gli oggetti (anche le famose Zie Jemine e Zio Tom) disposti in scatole o finestre, orologi, bilance, gabbie e vecchie porte tutte decorate con collage, oggetti e chincaglieria, varia ma che segue sempre un pensiero, un principio, che si tratti di barche, di pesci, di uccellini, occhi, spille o piramidi egizie. Ma è il movimento a spirare della disposizione degli oggetti di questa non più giovane artista a permettere all’attenzione di essere catturata non solo dai tanti elementi di riflessione sul tema della “razza” e del “genere”nativo americano, ma in quelli , sicuramente più universali e cari all’artista della vita e di morte. Come nei piccoli corredi (funebri?) di bimbe, ciocche di capelli della nascita, vestitini esposti, quasi con innocente candore che in un solo colpo d’occhio racchiudono il senso della morte e della vita in quello della “pace”. Oggetti ordinari vecchi, riciclati che diventano straordinari come polaroid di un tempo oramai trascorso dove l’identità afroamericana supera il concetto di razza e di etnia (e di “black art”), per far emergere quello di “black artis moviment”, ovvero quello universale di appartenenza ad una sfumatura del genere umano in quanto tale, come anche la scienza, ora, ha dimostrato.

di Cristina T.Chiochia per DailyMood.it

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