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Empire Of Light: Sam Mendes ci racconta il cinema, magia di luce

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Vi ricordate quando, da bambini, andavate per le prime volte al cinema, in quei grandi cinema che c’erano una volta? Tutto vi sembrava già magico, incantato, prima ancora di accedere alla sala, prima che si accendesse uno schermo. In Empire Of Light, il film di Sam Mendes al cinema dal 2 marzo, candidato a un premio Oscar (quello per la fotografia a Roger Deakins), viviamo davvero tutto questo, entrando in un cinema in cui ci sembra di respirare gli odori, di poter toccare con mano gli arredi, in cui ci sembra di essere, da tempo, clienti. Empire Of Light è un’esperienza immersiva. E allora eccoci nel cinema Empire, eccoci vivere il foyer, eccoci salire le sue imponenti scalinate, eccoci percorrere i corridoi, eccoci sfiorare il velluto delle poltrone. E vivere quel magico buio in sala prima che inizi lo spettacolo

Empire of Light è ambientato nei primi anni Ottanta, all’interno e nei dintorni di un vecchio cinema sbiadito ma ricco di fascino in una cittadina costiera dell’Inghilterra, Margate, nel Kent. Hilary (Olivia Colman) è una donna che gestisce il cinema ma, allo stesso tempo, deve anche gestire la sua salute mentale. A cambiare le cose è il suo incontro con Stephen (Micheal Ward), un nuovo dipendente, un ragazzo di colore, che sogna di fuggire da questa cittadina provinciale in cui deve affrontare ogni giorno tante avversità. È l’Inghilterra di Margaret Thatcher, destrorsa e un po’ razzista. Sia Hilary che Stephen trovano un senso di appartenenza attraverso la loro dolce e improbabile relazione e sperimentano il potere curativo della musica, del cinema e della comunità.

Empire Of Light è ancora una volta un racconto sul cinema e sulla sua magia. Arriva dopo Belfast, È stata la mano di Dio e The Fabelmans, e come questi film trasuda passione e arte. Ma, a differenza di Kenneth Branagh, Paolo Sorrentino e Steven Spielberg, il punto di vista non è quello di un bambino o di un ragazzo. Stavolta viviamo la storia attraverso l’anima di una donna matura, sola, depressa. Lo spunto autobiografico c’è anche qui: la madre di Sam Mendes lavorò davvero in un cinema. Quello di Hilary è un ritratto meraviglioso. È sovrappeso, è in cura dallo psichiatra che le prescrive il litio. Ma lei non lo prende, preferendo un bicchiere di vino rosso mentre, nel suo appartamento, ascolta a tutto volume It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding) di Bob Dylan. Al pomeriggio frequenta il centro anziani dove, poco convinta, balla con qualcuno. Ma si trova anche spesso nell’ufficio del suo principale, il padrone del cinema Empire, un Colin Firth per una volta viscido e lascivo, che la spinge a fare sesso in modo goffo e privo di passione. Olivia Colman, nel ruolo di Hilary, è eccezionale. Ha il trucco sbavato, lo sguardo spento e disilluso. È lontanissima dalla fierezza e dall’orgoglio della Regina Elisabetta che ha interpretato nella serie The Crown.

È il 1981, quando inizia la storia. E in quella cittadina balneare inglese la rivoluzione sembra non essere ancora arrivata. Non è Londra, non è nemmeno Manchester, e non è sembrano essere arrivati il punk, i Sex Pistols, Vivienne Westwood. Anche se una delle ragazze che lavorano al cinema con Hilary ascolta Love Will Tear Us Apart dei Joy Division e si trucca come una post punk. Quella cittadina inglese sul mare sembra essere rimasta agli anni Settanta, a quegli anni in cui, come racconta meravigliosamente Jonathan Coe nel suo romanzo La banda dei brocchi  (The Rotters’ Club), tutto era indefinitamente e completamente marrone. Ma da qualche parte il colore c’è, ed è quello degli esterni illuminati dalle luci al neon, che fa sembrare certi frame del film dei veri e propri quadri di Hopper. Ci sono dei rossi, dei bianchi e dei gialli accesi. Ci sono quei neon rosastri delle Roller Disco, le piste in cui si pattinava a tempo di musica. Roger Deakins, immenso artista della fotografia, dipinge tutto con la sua luce, ed è meritatamente candidato all’Oscar.

In fondo, questo è proprio il suo film, perché si parla di luce. Empire Of Light, il titolo del film, è un gioco legato al nome del cinema, l’Empire. Ma l’impero della luce è il cinema, inteso come arte. Sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio, dice uno dei personaggi. Ma, a 24 fotogrammi al secondo, non percepiamo il buio. Parole tecniche, che fanno sembrare tutto qualcosa di così semplice, che sembrano quasi sminuire, che non dicono (ma è chiaro che il regista lo pensi) che quel gioco tra luce e buio riesce a creare una magia. Nella sala del proiezionista ci sono due enormi macchine per proiettare i film. Ma è meglio non farle vedere, dice l’uomo. È meglio che il pubblico non lo sappia. Deve solo vedere un fascio di luce. Quel piccolo fascio di luce è una fuga, sentiamo dire. È una specie di magia, diceva quella canzone. Ecco, il cinema è questo: è la magia della luce.

A differenza dei film di Spielberg, Sorrentino e Branagh, qui vediamo pochissimo lo schermo illuminato, le sequenze dei film in questione. Vediamo invece il foyer, le scale, i corridoi, gli uffici, la sala del proiezionista. E quella sala al terzo piano, dove c’era un ristorante e un pianobar, abbandonata, con i piccioni che volano indisturbati, che è la protagonista di una serie di sequenze da antologia. Sam Mendes racconta non solo il cinema come arte, ma il cinema come luogo di socializzazione, di relazioni, come posto di lavoro. È il cinema come struttura, la sala, un mondo che sembrava essere sull’orlo della fine già allora, come si dice sia oggi. Il cinema è stato dato per morto già molte volte. Speriamo che non muoia mai.

Sam Mendes riesce a farci respirare cinema senza mostrare quasi mai una sequenza, ma parlando di cinema, facendo intravvedere qualche locandina, facendoci ascoltare le colonne sonore. E allora ecco evocati gli spiriti di Momenti di gloria, The Elephant Man, Toro scatenato. Alla fine, un film lo vediamo. Come Hilary, dipendente di un cinema che non è mai entrata in sala per vedere una pellicola, per la prima volta in Empire Of Light entriamo in sala e vediamo un film con lei. Si tratta di Oltre il giardino (Being There), di Hal Ashby, con Peter Sellers. Non è un caso che Hilary veda questo film. È così che capirà che, in fondo, “life is a state of mind”, “la vita è uno stato mentale”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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