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At Eternity’s Gate – la recensione

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Chi meglio di un artista può raccontare l’arte? Chi meglio di un artista può spiegare le complesse dinamiche dell’ispirazione artistica?

Sarebbe semplicistico definire At Eternity’s Gate un biopic su Vincent Van Gogh. Julian Schnabel, pittore prima che regista, pur restando nelle regole della narrazione classica, seguendo cronologicamente le tappe dell’ultima parte della vita di Van Gogh, non punta infatti tanto sul racconto biografico, quanto sul rapporto tra vita e creazione artistica. L’interesse del regista non è dunque focalizzato sugli eventi che hanno scandito gli ultimi anni del pittore de I girasoli, ma sull’effetto che essi hanno avuto sulla sua attività artistica. Studiando minuziosamente le lettere, i testi e tutti i documenti possibili riguardanti l’esistenza di Van Gogh, Schnabel non ha voluto realizzare il ritratto di uomo, ma proporre il suo sguardo sulla realtà. Il regista ha giocato così con lo schermo come fosse una tela: il suo obiettivo non era tanto mostrare tappa per tappa l’esistenza del pittore, quanto mettere in scena, dare tridimensionalità e concretezza alla sua visione del mondo.

A prestare il volto a Van Gogh è Willem Dafoe. Un’interpretazione apparentemente priva di emotività e di empatia, la sua, ma in realtà spinta da un intento straniante: l’attore americano, più che interpretarlo, sembra osservare da lontano la figura dell’artista, rappresentando la sua sofferenza e la sua solitudine, ma mantenendo sempre una certa distanza dal personaggio. In questo caso, infatti, ad entrare nell’anima del protagonista è lo stesso regista, e non il suo interprete. Con una macchina a mano che si muove nervosamente, e con costanti soggettive, semisfocate, che assumono lo sguardo pieno di lacrime di Van Gogh, l’autore riesce a rendere lo schermo la proiezione del mondo visto dal pittore olandese. Un mondo triste, pieno di dolore, segnato da rapporti umani incompleti e da importanti delusioni.

At Eternity’s Gate si concentra sugli anni vissuti da Van Gogh in Francia, tra Arles e Auvers-sur-Oise: è il periodo della sua amicizia con Paul Gauguin (interpretato da Oscar Isaac), dell’automutilazione con il taglio dell’orecchio ed infine dell’apparente suicidio. Ma è anche il momento cruciale della sua attività artistica, che lo vede immergersi completamente nella natura (anche umana), alla costante ricerca del bello in ogni piccola cosa, e che lo vede lavorare giorno e notte alle sue opere. Schnabel lo mostra mentre pennella istintivamente le sue tele, mentre si perde nei boschi e nelle campagne; ne indaga le paure e le insicurezze; lo osserva nei suoi scatti d’ira e nei suoi attimi di innocente dolcezza.

E ne viene fuori un’immagine nuova di Van Gogh, che non è più quella dell’artista maledetto che conosciamo: la magia del tocco incantato del regista disegnano sinuosamente il ritratto di un instancabile sognatore, tenero, infantile, incompreso nella vita e convinto che si possa godere della gioia dell’eternità solo dopo la morte. Un ritratto che è una vera poesia e al tempo stesso un’indagine profonda nel mondo dell’arte.
©La_Biennale_di_Venezia_-_foto_ASAC

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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