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Patrick Melrose. Benedict Cumberbatch in un tunnel di disperazione

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“Oh baby baby it’s a wild world” cantava Cat Stevens nel 1970. E in effetti il mondo di Patrick Melrose, personaggio semi-autobiografico nato dalla penna di Edward St Aubyn, è davvero selvaggio.
La miniserie co-prodotta da BBC e Showtime è andata in onda a luglio su Sky Atlantic (e questo mese potrete vederla in replica) e in soli cinque episodi è riuscita a conquistare il pubblico mettendo in scena un protagonista tormentato – splendidamente interpretato da Benedict Cumberbatch – alla ricerca di una via di fuga da un passato segnato dalla violenza.

Basta la scena di apertura del primo episodio per capire – o almeno intuire – quale sarà il fil rouge della vicenda raccontata. Un telefono squilla, Patrick risponde e dall’altro capo del telefono una voce lo informa della morte del padre. Patrick sembra confuso, sorride e si accascia a terra. Forse è sconvolto dalla notizia, pensiamo. E invece il ragazzo raccoglie da terra una siringa: si è appena iniettato in vena una dose di eroina.
La canzone di Cat Stevens che segue apre le danze di un viaggio nelle emozioni di Patrick in un arco narrativo che ricopre la sua intera esistenza, dagli anni sessanta fino ai primi anni duemila. Un’esistenza segnata fin dall’infanzia dal difficile rapporto con il padre (interpretato da Hugo Weaving), che si scoprirà aver abusato del figlio fin dalla tenera età. La madre (Jennifer Jason Leigh), anche lei alcolizzata e ignorata dal marito, non fa nulla per proteggere il bambino e gli amici di famiglia – pur accorgendosi della strana atmosfera che avvolge i tre – non porgono domande scomode per paura di scatenare l’ira di quel padre-padrone stimato e ben voluto dall’upper class inglese.

La droga (di ogni tipo) mixata con l’alcool sembrano essere l’unica soluzione per dimenticare, ma la morte del padre fa ripiombare Patrick nei ricordi che aveva cercato di cancellare e gli fa rimpiangere di non essere mai riuscito a confessare al padre l’odio che provava nei suoi confronti. Dopo un tentativo di suicidio finito male però il giovane capisce che forse per lui può esserci ancora speranza, e il tentativo di condurre una vita onesta potrebbe finalmente liberarlo da quella gabbia di oscurità in cui sembrava aver perso sé stesso. Ma disintossicarsi, confidare all’amico fidato gli abusi subiti e costruire una famiglia tutta sua basterà per lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato o il peso del suo cognome lo affosserà per sempre?

A primo acchito si potrebbe pensare che la storia raccontata in Patrick Melrose potrebbe essere riassunta in un’unica parola: dipendenza. La dipendenza dalla droga, da un passato doloroso e da un rapporto genitore-figlio tanto insano quanto ingiusto. Anche le scelte dello sceneggiatore David Nicholls e del regista Edward Berger sembravano condurre verso questa interpretazione: dalla decisione di aprire il racconto non dall’inizio (come nei romanzi che compongono la saga I Melrose, pubblicati in ordine cronologico ovvero dall’infanzia di Patrick svelando da subito le violenze subite dal bambino) ma dal momento forse più buio dell’esistenza di Patrick – o almeno dal momento più profondo della sua tossicodipendenza – fino ad alcune specifiche scelte di regia e di montaggio che hanno permesso di trasporre visivamente il tormento e il legame paterno del protagonista (dai momenti di abuso mai ripresi ma lasciati intendere inquadrando in silenzio la porta della stanza in cui venivano consumati, fino ad un montaggio metaforico che accosta le ceneri del padre con la cocaina di Patrick).
Ma la miniserie, così come i romanzi prima di lei, affronta tematiche che vanno aldilà della dipendenza ed esplora le sfaccettature del rapporto tra genitori e figli, mogli e mariti, tra presente e passato, e laddove i personaggi secondari possano risultare poco approfonditi o solo di contorno, risultano invece efficaci per la mise en scène dell’ambiente in cui vive Patrick e offrono un’interessante riflessione sulle vacuità e contraddizioni dell’alta società, troppo incline alle apparenze e cieca dinnanzi ai problemi che possono affliggere chiunque, senza differenza di classe. Il tutto confezionato da dialoghi intensi, mai banali e che nonostante la gravità dei fatti narrati, non possono fare a meno di un black humor tutto british efficace nel mantenere viva l’attenzione.

A contribuire alla buona riuscita di Patrick Melrose – oltre alle già citate regia e sceneggiatura – anche la bellissima fotografia e la colonna sonora che spazia da Janis Joplin, Nina Simone, The Clash e dei Blur. Impossibile inoltre non elogiare il lavoro svolto dal protagonista assoluto Benedict Cumberbatch; non c’erano dubbi riguardo alle sue doti attoriali e nel corso degli ultimi anni è riuscito a conquistare il cuore del pubblico e le lodi della critica grazie alle sue interpretazioni sia a teatro che al cinema e in tv, ma questa volta si è superato. Il suo carisma messo a disposizione dello script gli ha permesso di dar vita ad un personaggio difficile da dimenticare, ricco di sfumature e psicologicamente complesso. Irriverente ma malinconico, festaiolo ma solitario, anima pura ma tormentata, in cerca di redenzione ma altresì incline all’eccesso e all’errore, Benedict Cumberbatch è Patrick Melrose, e noi non potevamo desiderare un attore migliore per impersonarlo.

di Marta Nozza Bielli per DailyMood.it

 

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