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Ready Player One. Spielberg, il passato e il futuro del cinema

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I’m a dreamer. I build worlds. Sono un sognatore. Costruisco mondi. Sono le parole di James Halliday, personaggio chiave di Ready Player One, il nuovo film di Steven Spielberg, tratto dal romanzo di Ernest Cline. Ma potrebbero essere parole dello stesso Spielberg, sognatore e creatore di mondi per eccellenza, colui che come pochi altri ha saputo indirizzare un certo cinema di arte e intrattenimento dalla fine degli anni Settanta ad oggi. Al centro di Ready Player One, dove c’è davvero di tutto, c’è anche il rapporto tra un creatore e la sua opera. Siamo nel 2045, giusto 4 anni prima del secondo Blade Runner, e anche qui le città sono verticali, ma sono fatte di baracche. La gente vive male, ma si accontenta. Tanto può fuggire in OASIS, un gioco in realtà virtuale. È quello che fa ogni giorno Wade Watts (Tye Sheridan), grande appassionato del gioco. Il creatore di OASIS è appunto James Halliday (Mark Rylance), genio dell’informatica che era un ragazzino negli anni Ottanta e che ha infarcito il suo gioco di riferimenti a quell’epoca, alle sue passioni, alla sua vita. Ha anche lasciato nel gioco degli Easter Eggs, dei contenuti nascosti, delle chiavi: chi le troverà erediterà il gioco e l’intera fortuna di Halliday. Wade, insieme a un gruppo di amici, tra cui Art3mis/Samantha (Olivia Cooke) e Aech/Helen (Lena Waithe), cercherà di vincere. E dovrà guardarsi da un grande rivale: è Nolan Sorrento (il grande Ben Mendelsohn di Bloodline e Rogue One), a capo della multinazionale IOI.

Un creatore che odia la sua opera. Così viene definito Halliday. E Spielberg certo comprende i dilemmi del rapporto che un artista ha con la sua creatura. Comprende, ma non ci si identifica. Spielberg ama la sua opera passata, e la storia di Ready Player One sembra fatta apposta per una serie di omaggi, non solo ai suoi film, ma anche a tutto un cinema che oggi non si fa più. Tratta con pudore i riferimenti al suo cinema che erano presenti in modo massiccio nel libro (per non rischiare di essere autoreferenziale), ma lascia volentieri un T-Rex da Jurassic Park e la DeLorean di Ritorno al Futuro, che nella prima gara del videogame ci stanno benissimo. E omaggia, con tenerezza, o con maniacale passione cinefila, John Hughes e il suo Breakfast Club, Stanley  Kubrick e il suo Shining, Brad Bird e Il gigante di ferro. Come aveva fatto Cameron Crowe in Vanilla Sky, Spielberg coglie l’occasione del mondo virtuale per creare un suo mondo ideale, un pantheon di passioni e guily pleasures. Il cinema, ma anche la musica pop (Michael Jackson e i Duran Duran, evocati dagli abiti, gli A-ha dai dialoghi, i Van Halen, Blondie , i Tears For Fears e George Michael in colonna sonora) personaggi come Gundam, giochi come Adventure.

Ready Player One, con il suo continuo rimpallo tra mondo reale e mondo virtuale, è l’occasione per creare la sintesi perfetta tra i suoi film live action e i suoi esperimenti in performance capture come Le avventure di Tin Tin e il Grande Gigante Gentile. Ready Player One ha il pregio di regalarci di nuovo lo Spielberg più giocoso, visionario, sognatore e pieno di stupore che non vedevamo da un po’ di tempo, quello con cui siamo cresciuti. Il doppio mondo, poi, permette a Spielberg di fare tutto quello che vuole: creare un mondo cupo, monocromo, polveroso (orwelliano, si potrebbe dire, ma ricorda di più le straordinarie scenografie di District 9 di Neil Bloomkamp) per la zona delle cataste, gli slums della vita reale dove vive Wade. E crearne uno digitale, eccessivo, vorticoso e coloratissimo, dove non valgono le regole della fisica e della gravità, dello spazio e del tempo. La fantasia del fanciullino Spielberg qui ha la possibilità di essere sfrenata come mai prima d’ora. Di costruire scene da godere dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, cioè nella magnificenza dell’insieme – correre su una Delorean in una New York destrutturata e ricostruita inseguiti da King Kong, danzare Stayin’ Alive sospesi nel vuoto in una discoteca alla fine del mondo – e nelle miriadi di dettagli che si trovano nell’officina di Aech. Ready Player One è un film stratificato, da vedere più volte. Una per rimanere abbagliati dai colori della realtà virtuale, una per notare tutti i dettagli, tutte le piccole lettere d’amore sparse qua e là, una per cogliere una serie di riflessioni più profonde su noi, la nostra vita, il futuro, il cinema. A proposito: Spielberg ha preso un libro pieno di delizie per nerd e lo ha elevato a puro piacere per cinefili. Vedere per credere.

Vedere per credere. È proprio questo il punto. Ready Player One è anche uno di quei film che, tra una discesa e una salita delle montagne russe su cui ci porta, riesce a farci riflettere come sa fare la miglior fantascienza. La realtà virtuale ci farà “vedere” (e anche sentire, nella versione con la tuta che vediamo nel film) cose che non sono intorno a noi. E allora la tentazione di lasciarsi andare sarebbe forte. “La gente non risolve più i problemi e punta a tirare avanti” ci dice la voce narrante di Wade all’inizio del film. Il pericolo che si perda di vista la realtà, il quotidiano, e si cerchino facili vie d’uscita in mondi virtuali c’è. Ci si chiede anche se il virtuale possa essere il futuro di un cinema che costantemente viene dato per morto, e altrettanto costantemente dimostra il contrario. Steven Spielberg riflette anche su questo. Ma, lungo tutto il film, sembra dirci più volte come creda nel cinema, e in quale cinema. Ready Player One è uno dei film dell’anno, da non perdere per nessuna ragione. Ho solo il dubbio se tutti noi siamo stati realmente conquistati dalla storia o dai temi, o dal il fatto che Spielberg sia riuscito a cogliere così tante cose che fanno parte di noi. Come quell’oggetto che compare a un certo punto del film, che è il cubo di Rubik, ma lo chiamano il cubo di Zemeckis. Perché, come la DeLorean, ha il potere di portarci indietro nel tempo. Ready Player One è come quel cubo: ci porta indietro nel tempo, proprio nella cameretta di quando eravamo ragazzi.

di Maurizio Ermisnino per DailyMood.it
Infografica by: StampaPrint

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