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Made in Italy. Ligabue racconta l’Italia. Ma sempre da mediano

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Sogni di rock’n’roll, cantava qualche anno fa Ligabue. Riko (Stefano Accorsi), il protagonista del suo nuovo film, Made In Italy, camice improbabili alla texana, jeans e cinturone, ha il look di chi è cresciuto con dentro quei sogni, l’America, il rock, Elvis. La sua realtà è molto diversa, ma quei sogni fanno di lui quello che è oggi. Made In Italy, nelle nostre sale dal 25 gennaio, opera terza di Luciano Ligabue (da regista si firma così) dopo Radiofreccia e Da zero a dieci, nasce – per la prima volta – non da una sceneggiatura originale ma da un suo album omonimo. È un concept album (“un progetto balordo e anacronistico” lo definisce lui, vista la fruizione della musica di oggi), un disco che quindi ha un tema comune, una storia. È quella di Riko, operaio in una fabbrica di insaccati, costantemente a rischio licenziamento, della moglie Sara (Kasia Smutniak), parrucchiera, con cui la passione forse si è affievolita, e dei suoi amici, come Carnevale, artista tanto allegro fuori (da qui il nome) quanto tormentato dentro. Tra manifestazioni, scontri, minuti di celebrità, crisi personali e professionali, discese ardite e risalite (quello era un altro, ma rende l’idea), Riko troverà la forza di cambiare.

È molto raro, nel cinema borghese italiano, trovare un racconto di vite ordinarie, mondi ordinari, lavori ordinari. Ce lo regala Luciano Ligabue, che sa che queste vite potevano essere la sua, se solo non avesse imparato a fare un altro lavoro, fatto di tre accordi e la verità. Perché tutto si può dire di Ligabue tranne che non sia uno vero. Uno dei pochi che non ha mai perso il contatto con la realtà, che non ha mai scordato da dove viene. Uno che frequenta ancora i vecchi amici, e proprio grazie a loro sa come va il mondo, oggi. E, soprattutto, sa come va l’Italia. Qui vuole dare voce a chi non ce l’ha, a chi non viene mai raccontato, interpellato, rappresentato: la gente perbene, la chiama lui. Insieme a loro, ci parla di lavoro, precariato, integrazione, immigrazione ed emigrazione.

Però un rischio c’è: a parlare delle persone comuni si può finire a parlare come le persone comuni. E quindi di cadere nel luogo comune, nello scontato, nel prevedibile. E di cose di questo tipo, in Made In Italy, ce ne sono davvero tante. A partire dalla metafora, fin troppo ovvia, di un’Italia in rovina, nel momento della visita alle rovine di Roma, per passare a certe scene un po’ ingenue, come quella della manifestazione, e a certi dialoghi. Made In Italy è un film che fa fatica a trovare un suo centro: è quello che accade a Riko alla manifestazione e poi quando arriva in tv (spunto lanciato e poi lasciato cadere)? È la sua storia d’amore e tradimenti con la moglie Sara? È il suo posto di lavoro? È il rapporto con l’Italia? È come se Ligabue volesse raccontare troppe cose, avesse tanti spunti in mente, e non volesse privilegiarne uno sugli altri.

E poi c’è la musica. Il suono e la voce di Ligabue sono un mood, un pulsante su cui premere play ed entrare in un mondo. Sono inconfondibili, ti accompagnano e dettano una linea. I brani che ascoltiamo in Made In Italy forse non sono i suoi migliori, anche se Non ho che te è un ritratto piuttosto centrato su cosa voglia dire perdere un lavoro oggi e cosa accada in una famiglia. Ma nell’uso della musica Ligabue è piuttosto umile: la mette al servizio del film. Usa il suo pezzo più famoso dell’album, G come giungla, solo nella versione strumentale. Tutto sommato, per essere un film tratto da un concept album, cioè da un’opera che ha un filo conduttore, la musica di Ligabue si sente poco, non vuole prevaricare la storia. No, Made In Italy non è un’opera rock. Il Luciano nazionale dimostra una gran conoscenza in fatto di rock: colora il suo film con alcuni pezzi di rock anni Ottanta, ma con qualche sorpresa. Se pensiamo a lui con una radio che passa Neil Young, o Springsteen, per citare un altro modello, nel suo film usa invece molto rock anglosassone: i Simple Minds di Waterfront, gli Psychedelic Furs di Heaven, i Waterboys di The Whole Of The Moon (era il brano che apriva lo Joshua Tree Tour degli U2 di questa estate). I Simple Minds e i Waterboys sono scozzesi. È la provincia del Regno Unito. E forse sono stati scelti dal Liga proprio per questo. A Liga la provincia interessa. E anche a noi, forse un po’ stufi di vedere al cinema Roma e Milano, e supereroi con superproblemi. La forza di Ligabue sta nel mettersi allo stesso livello delle persone che racconta (pensate a cosa ha fatto invece Castellitto con Fortunata), il suo mettersi a disposizione delle storie, con fatica, abnegazione, sudore. Perché la sua, anche se di successo, è sempre una vita da mediano.

di Luciano Ligabue per DailyMood.it

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