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La ruota delle meraviglie. E intanto Woody Allen non sbaglia un film

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Larger than life, più grandi della vita. Li definisce così i personaggi de La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel) Mickey (Justin Timberlake), allo stesso tempo un personaggio e il narratore onnisciente del nuovo film di Woody Allen. Più grandi della vita come possono essere i personaggi di un dramma teatrale, di un film dell’età dell’oro di Hollywood. La ruota delle meraviglie è questo: personaggi vivi e palpitanti che sembrano vivere su un palcoscenico, che entrano ed escono da un ruolo. Un ruolo che è stato loro assegnato e a cui magari sentono di non appartenere. È così per Ginny (Kate Winslet), ex attrice, ex promessa del cinema che non ha mai sfondato; con un matrimonio fallito alle spalle, ha sposato Humpty (Jim Belushi), un uomo modesto che non ama. Lei fa la cameriera, e lui il manovratore di giostre nel luna park di Coney Island, a New York. Vulnerabile e disperata, come dice il suo linguaggio del corpo, incontra Mickey, bagnino con ambizioni da scrittore, e inizia una relazione con lui. Ma l’arrivo di Carolina (Juno Temple), la figlia di Humpty in fuga dal marito gangster, spariglierà le carte…

Ginny, Dumpty, Mickey e Carolina sono i personaggi di un plot teatrale, per come sono scritti, per come si comportano, per come “recitano” sul palcoscenico della vita, con azioni e reazioni ad effetto, eccessive, appunto “teatrali”. Sembrano usciti dalla penna di Tennessee Williams. Ma il teatro, o il cinema, sono a loro volta portatori di metafore. Tutto nella storia ha a che fare con il recitare una parte che non è la propria, con l’ottenere un ruolo migliore, con l’essere il sostituto di qualcuno. Così come sembra essere una metafora, oltre a rappresentare il disagio della vita familiare dei protagonisti, il figlio piromane di Ginny, che gira appiccando incendi in ogni luogo di Coney Island: simbolo e contrappunto di un gruppo di personaggi che giocano davvero con il fuoco. Fino a rischiare tutto.

Non c’è niente di davvero nuovo, nella storia di Woody Allen, che alla fine arriva dove deve arrivare. Ma quello che conta è il modo in cui ci arriva. Oltre che dalla scrittura sobria e tagliente di Allen, il film vive della fotografia di Vittorio Storaro, che inonda i personaggi di una luce calda e pastosa. Le luci colorate del luna park di Coney Island entrano nelle case dei personaggi, che vivono proprio lì, li accarezzano e li fanno vivere in una cornice ovattata, incantata, accrescendo il carattere innaturale e teatrale dell’opera. I colori caldi, i rossi e gli arancioni, sono associati a Ginny, che spesso è sullo schermo al tramonto, le cui tonalità rappresentano il suo attaccamento al passato. Carolina è un azzurro chiaro, un light blue, e vive in quel particolare momento tra il tramonto e lo spuntare della luna, proiettata verso il futuro.

Se il volto da bambolina di porcellana di Juno Temple (vista e apprezzata in Vinyl) è perfetta per il ruolo di Carolina, a giganteggiare è una magnifica Kate Winslet. L’ex Juliet di Heavenly Creatures e l’ex Rose di Titanic è in scena avvolta dalla luce calda, pastosa e dorata di Storaro, ed emana un’aura unica. Con quella luce quasi mistica a inondarle i capelli sembra un’icona, una Madonna laica e terribilmente terrena. Una santa peccatrice, come solo lei, da Holy Smoke a The Reader, ruoli vissuti con tutto il corpo oltre che con il volto, sa essere. Se per una volta Allen non trasferisce se stesso in alcun personaggio (il Mickey di Timberlake, pur essendo il narratore e parlando in macchina, non è il suo alter ego, non ha i suoi tic né la sua ironia), come certi narratori della letterature dell’Ottocento non nasconde di amare la sua eroina. Che è appunto Ginny. E così la amiamo anche noi. E la capiamo anche quando, per amore e brama di vita, fa la scelta sbagliata.

È una scelta umana, stavolta, a dare la direzione al film nel finale. Mentre nella prima parte era stato il caso (quel ritardo che non permette ai gangster di entrare in un ristorante), quel caso che, come in Match Point, faceva cadere la pallina da un lato piuttosto che dall’altro della rete. Destino, scelte, delitti e castighi, tornano tutti i temi cari a Woody Allen, in quello che è forse il suo miglior film dai tempi di Match Point. E poi ti accorgi che intanto Woody Allen non sbaglia un film. Se dopo Match Point per anni abbiamo detto che non era più lui, e che il film ambientato nel jet set londinese era un caso isolato, ora ci rendiamo conto che, negli ultimi anni – vogliamo dire almeno dal 2011, cioè dal delizioso Midnight In Paris? – sono molti più i suoi film riusciti – Blue Jasmine, Irrational Man, Cafè Society- che quelli non riusciti, forse il solo To Rome With Love. Facendo un film all’anno, e alla veneranda età di ottant’anni, non è affatto scontato. In fondo l’arte, e la vita, per lui e per i suoi Ginny, Mickey, Humpty e Carolina, è come la ruota delle meraviglie: si scende e si sale, per un attimo si è in cielo, e l’attimo dopo a terra.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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