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Sign’o’the Times. Quando Prince colorò il mondo di pesca

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Prince il Genio, il folletto di Minneapolis. Prince lo schiavo, il simbolo dell’amore, o l’Artista. E poi TAFKAP, cioè The Artist Formerly Known As Prince, l’artista precedentemente conosciuto come Prince. Sono tanti i nomi, le definizioni, le sigle, i simboli che hanno accompagnato Prince Roger Nelson, da Minneapolis, uno dei più grandi talenti della scena musicale contemporanea. Una vita finita troppo presto. Il film Sign’O’The Times, che torna nei cinema oggi e domani, 21 e 22 novembre, con Nexo Digital, è l’occasione per ricordarlo all’apice della sua carriera.

Nato a Minneapolis da una famiglia afroamericana proveniente dalla Louisiana, Prince canta, suona, compone fin da bambino (la sua prima canzone, Funk Machine, la scrive a sette anni). Il suo primo disco è del 1978, For You. Il successo mondiale arriva nel 1984 con Purple Rain, album e film in cui Prince interpreta se stesso, o un personaggio molto simile a lui, il leader di una band in lotta per il successo. Il suono di Prince oscilla tra funky e rock, con l’immortale ballad che dà il titolo all’album e un pezzo come When Doves Cry, dove Prince cambia, come farà spesso, le regole, e toglie il basso dal mix finale, ottenendo un suono freddo e crudo. E poi Darling Nikki, con il suo testo esplicito. Per tutta la carriera alterna bianco e nero, funky, soul e r’n’b al rock e al pop, evidente soprattutto nel seguente Around The World in A Day, il suo disco “beatlesiano”. Il funky esplode nell’altro successo mondiale, Parade, quello di Kiss. Prince è forse stato il primo artista in America a rompere le barriere, superare i confini tra le culture, tra i generi, tra le etichette.

Minuto, minuscolo, il fisico nervoso a volte ostentato ed esibito, come nella prima parte della sua carriera, quando si presentava sul palco a torso nudo, a volte messo in secondo piano, come nell’accollato completo pesca, corredato da una cravatta nera, che indossa all’inizio del concerto. I capelli ricci, ribelli come quelli di Jimi Hendrix, quei baffi radi a incorniciare le labbra, lo sguardo ora ammiccante, ora dolce, il sorriso complice e suadente. È Prince, animale da palcoscenico tanto quanto è genio musicale.

Sign’O’The Times, il doppio album e il concerto al centro del film, è il suo lavoro più completo, più ricco. Un ulteriore cambio di marcia rispetto ai successi precedenti. Il film/concerto, come l’album, si aprono su uno scarno beat elettronico, che sembra il battito di un cuore. “In Francia un uomo magrissimo è morto di una grande malattia dal piccolo nome” sono le parole che danno inizio alla title track. Il riferimento è all’AIDS, ed è l’inizio di un testo cupo che fa i conti con la morte. “È stupido, no? Che ogni volta quando un razzo esplode e tutti vogliono ancora volare. Qualcuno dice che un uomo non è felice finché non muore del tutto”. Prince è vestito con un trench di pelle nera, e sotto porta una giacca/camicia color pesca, come i pantaloni e la chitarra. I capelli ricci hanno un ciuffo che cade sulla fronte e sono raccolti in alcune treccine, sul volto degli occhialini tondi. In occasione del suo disco più famoso, Prince abbandona il viola che aveva rappresentato il suo grande successo (Purple Rain) e colora tutto il suo mondo di pesca, chiedendo al pubblico dei suoi concerti di vestire in quella tinta, o di nero. Play In The Sunshine è trascinante e ha un assolo degno di Hendrix. La sua band è eccezionale. Potente, e sexy, Sheila E. alla batteria. Little Red Corvette, con quelle percussioni che sembrano spari, si lega al potente funk alla James Brown di Housequake. Prince recita, canta e suona la chitarra nella psichedelica I could never take the place of your man. In Hot Thing, lasciata la chitarra, oltre a cantare si fa ballerino, in un gioco erotico e ironico con la ballerina e corista, la strepitosa Cat. U Got The Look appare sullo schermo come un doppio sogno, quello che Prince fa nei camerini, e quello di una donna che vuole cantare con lui. “Il sogno che tutti sogniamo, ragazzo contro ragazza nelle world series dell’amore” recita il testo: Prince duetta con Sheena Easton, i cui occhi verdi penetrano lo schermo.

È una delle tante donne di Prince. Decine di artiste lanciate, e molte di loro, forse tutte, amate. Le donne sono state nella vita, e nell’arte, di Prince, importantissime: colleghe, muse, amiche, amanti. Oltre a Sheena Eston e Sheila E. nella vita di Prince ci sono Apollonia, Jill Jones, Wendy e Lisa, (prima musiciste della sua band, i Revolution, e poi cantanti in coppia) Susanna Hoffs delle Bangles (a cui regala il primo successo, Manic Monday), Madonna, con cui ebbe un breve flirt, e Mayte Garcia, che diventerà sua moglie. In Sign’O’The Times non mancano i momenti più dolci: If I Was Your Girlfriend, sexy e tenerissima, sostenuta da un basso slappato, si conclude con un amplesso mimato tra Prince e Cat. Slow Love è puro soul. Tra un pezzo e l’altro appaiono squarci di palazzi, di insegne al neon (è lo sfondo del palco, che la regia del film – dello stesso Prince – porta in primo piano creando un’atmosfera notturna e complice) che creano un’immaginaria città della notte tra Parigi, Manhattan e Downtown L.A.

Dopo Sign’O’The Times Prince collezionerà altri successi (Lovesexy, Batman), ma inizierà a sentirsi prigioniero della discografia e delle sue regole, troppo limitanti per una personalità immensa come la sua. Comincerà a definirsi “Slave”, schiavo, scrivendolo sul volto, a rinnegare il suo nome (Prince oramai era un marchio in mano ai discografici) a farsi chiamare con un simbolo, che univa quello del genere maschile e femminile, o The Artist, o TAFKAP. Proverà a cambiare le regole, sparendo, in parte, dal mercato, ma continuando a suonare fino alla sua morte, nell’aprile del 2016. Ma questa è un’altra storia. Adesso potete vederlo all’apice della sua arte, in Sign’O’The Times.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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