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“Heroes”: quando David Bowie si tolse la maschera a Berlino

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C’è la old wave. C’è la new wave. E poi c’è David Bowie. È la frase che la RCA sceglie per lanciare “Heroes”, il capolavoro dell’amatissima rockstar inglese. È il 1977 (il 14 ottobre), quarant’anni fa. E quella frase non è messa lì a caso. È lì per definire la posizione di Bowie, artista unico oggi, a quasi due anni dalla sua scomparsa, come lo era alla fine di quegli anni Settanta. Distante dal caos del punk, ma anche dal vecchio rock’n’roll dei seventies, anche dal glam rock di cui lui stesso è stato uno degli artefici. Capace di rinnovarsi e di non rifare mai se stesso. “Heroes” arriva quando David Bowie ha smesso i costumi e i capelli rossi dell’alieno Ziggy Stardust, e non ha ancora indossato i completi color pastello e il ciuffo biondo del crooner di Let’s Dance. L’ex Duca Bianco qui può essere se stesso, indossare jeans, una t-shirt nera e un giubbotto di pelle, lasciare i capelli del proprio colore, un biondo cenere, o un castano chiaro. La stessa posa sulla copertina del disco, con il palmo alzato, sembra l’immagine di qualcuno che si toglie la maschera per svelare il suo vero volto.

A nessuno frega un cazzo di te a Berlino”, disse all’epoca Bowie. Anche per questo può essere se stesso, vestirsi così. La gente di Berlino aveva già abbastanza problemi per preoccuparsi di una popstar inglese arrivata in città. Bowie qui trova proprio quello che vuole: entrare e uscire dai caffè e dai locali, ubriacarsi in compagnia del suo amico Iggy Pop nei bar per gli operai, visitare gallerie d’arte, frequentare i cabaret per i travestiti. È una boccata d’aria fresca per uno che arriva dal “cesso più nauseabondo del mondo”.
Quel cesso nauseabondo si chiama Los Angeles, dove David Bowie aveva vissuto due anni terribili, sprofondando in una dipendenza da cocaina, tra paranoie e fascinazioni per l’occultismo, una dieta a base di latte e peperoni, e serate passate in casa a ricevere groupies e partite di coca. Il suo aspetto è quello di un fantasma. “Verso la fine della mia permanenza in America” racconta a Melody Makercapii che quello che dovevo fare era sperimentare. Scoprire nuove forme di scrittura. Dare vita, in effetti, a un nuovo linguaggio musicale. Ed è per questo che tornai in Europa”. Affascinato dall’incontro con Christopher Isherwood, l’autore di Addio a Berlino, e dalla nuova scena musicale tedesca (il krautrock di Neu!, Can e Kraftwerk), Bowie sceglie Berlino.
Registra agli Hansa Studios, a pochi passi dal Muro di Berlino, nella sala più grande, la “Hall By The Wall”, ex sala da ballo dell’epoca di Weimar, usata poi dai nazisti per i loro ricevimenti: dalle sue finestre si possono vedere i militari armati che fanno la guardia al Muro. L’atmosfera è “provocante, stimolante e spaventosa”, come racconta Tony Visconti, il produttore. Bowie chiama musicisti come Brian Eno, ex Roxy Music, ai sintetizzatori, Robert Fripp dei King Crimson e Carlos Alomar alle chitarre. Fripp arriva a Berlino la sera e riparte la mattina dopo, dopo aver registrato tutte le sue parti in sei ore, spesso senza ascoltare i brani su cui avrebbe suonato. Eno, grazie all’EMS, un sintetizzatore che stava in una valigetta 24 ore, processa in diretta la musica di Fripp, creando suoni che sembrano usciti da tutto tranne che da una chitarra. L’atmosfera è estremamente creativa, quasi tutte le tracce ritmiche dell’album sono prove. Come a dire: buona la prima. Tony Visconti lascia sempre un registratore a due piste acceso perché sa che con David Bowie l’ispirazione può venire in ogni momento. Le performance vocali di Bowie sono tra le migliori della sua carriera: toni caldi e colloquiali, che si trasformano in falsetti, o in urla straziate e stranianti.

Le canzoni di “Heroes” sono pensate per riflettere “la vita di strada a Berlino”. Spesso i testi sono un flusso di frasi sconnesse, messe insieme con la tecnica del cut-up di Burroughs. Ma “Heroes” ha un testo più narrativo. Bowie ha in mente la storia tra due amanti divisi dal Muro. E l’ispirazione per il testo scaturisce per caso, quando vede una coppia abbracciarsi all’ombra del muro. Sono il produttore Tony Visconti e la cantante Antonia Maass. Ed è così che nasce il testo di “Heroes”. Che, a differenza di quanto si pensa, non è un inno all’ottimismo, ma l’illusione di una storia d’amore che potrebbe durare solo un giorno. È questo che vuol dire “we can be Heroes, just for one day”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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