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Addio a Paolo Villaggio, maschera dell’italianità

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Negli ultimi anni, in ogni apparizione pubblica, sembrava volesse sempre esorcizzare la morte. Con la consueta irriverenza, ironizzava sull’argomento tirandolo fuori anche quando non c’entrava nulla col discorso. Lo stesso faceva nei suoi libri e nei suoi spettacoli teatrali. Basta ripercorrere i titoli dei suoi ultimi lavori per averne prova: Serata d’addio, Mi piacerebbe tanto non andare al mio funerale, Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda.
L’esorcismo però, prima o poi, doveva smettere di funzionare. E così, anche Paolo Villaggio ci ha lasciato. Se n’è andato un talento puro, che era rimasto, ormai, uno dei pochi “esemplari” di uno spettacolo che sapeva andare oltre la sua apparente superficialità di intrattenimento per scandagliare la società, i suoi mali, i suoi difetti, mettendoli alla berlina con originalità e spirito popolare.
L’attore genovese ha rappresentato e continuerà ancora a rappresentare un pezzo di Italia. Con il suo cinismo inarrestabile, Villaggio ha saputo raccontare l’anima goffa, impacciata e spesso perdente dell’italiano medio. L’ha fatto con i suoi libri, tradotti in molte lingue e conosciuti in tutto il mondo, con i suoi show televisivi, con i suoi malinconici e amari testi teatrali, e soprattutto con i suoi personaggi grotteschi e paradossali ma sempre ancorati alla realtà. L’indimenticabile professor Kranz, che coinvolgeva il pubblico con il suo surreale accento tedesco e i suoi ridicoli trucchi di magia; l’irresistibile Giandomenico Fracchia, timido, vigliacco e sfortunato; e poi ovviamente lui, Fantozzi, la figura che ha segnato indelebilmente l’immaginario collettivo. Nato inizialmente su carta e poi portato sul grande schermo, inizialmente diretto dall’attenta mano di Luciano Salce, il ragionier Ugo ha incarnato nella sua maschera il comico e il tragico della vita, in maniera dissacrante, irriverente e crudele. Le sue disavventure, raccontate in terza persona dalla voce fuori campo dello stesso Villaggio con un linguaggio iperbolico e paradossale, costituiscono delle pagine di “piccola italianità” rese attraverso una comicità sì demenziale ma arguta, originale e intelligente. Con un solo personaggio, Villaggio è così riuscito a raccontare un intero paese e ad entrare con forza nella memoria di tutti. Come poter dimenticare la mitica coppa Cobram, la partita tra scapoli e ammogliati, il mega direttore e la sua poltrona di pelle umana? Come non pensare, di fronte ad una partita di calcio, al tormentone entrato ormai nel linguaggio comune “calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle, familiare di Peroni e rutto libero”? Come non poter ricondurre al mitico ragionier Ugo il preconcetto popolare – non di certo del mondo cinefilo – che La corazzata Potemkin sia una “boiata pazzesca”?
Insomma, con Fantozzi, Paolo Villaggio ha scritto un pezzo di storia del cinema e della comicità nazionale. Ma lui stesso, seppur felice di questo risultato, si rammaricava per non esser ricordato come un attore e un artista in grado anche di fare altro. Perché lui lo era, un artista. Un artista a tutto tondo, capace di passare da Federico Fellini a Mario Monicelli, da Marco Ferreri a Lina Wertmuller arrivando fino ad Ermanno Olmi. Un artista geniale che ha scritto canzoni per l’amico Fabrizio De André, che è stato un innovatore e un precursore, che ha rivoluzionato la radio e soprattutto la televisione con la sua dirompente fisicità e la sua innata insolenza. Il grottesco era il suo marchio di fabbrica, un marchio che, almeno in Italia, non consentiva paragoni o accostamenti con nessun altro collega. Villaggio, in fondo, era unico, tanto scorbutico e scontroso nella vita reale, quanto acuto, brillante, folgorante nella sua attività creativa. Ci mancheranno il suo spirito corrosivo, la sua scorretta ironia, la sua struggente malinconia. Ma la sua arte, per fortuna, continuerà a divertirci e, soprattutto, a raccontarci.

di Antonio Valerio Spera per DailyMood.it

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