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1993. Il grande romanzo popolare (e criminale) italiano

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L’entrata in scena di Silvio Berlusconi in 1993, dopo che in 1992 era stato continuamente evocato, alza immediatamente l’asticella della serie tv appena andata in onda su Sky Atlantic. 1993, nata da un’idea di Stefano Accorsi, si ricollega direttamente ai fatti di 1992 e continua a raccontare (lo farà anche nel suo terzo atto, 1994) tre anni cruciali della nostra storia sociale e politica. L’arrivo di Berlusconi è il compimento del disegno, un altro passo verso la quadratura del cerchio, la sua “discesa in campo” e la vittoria alle elezioni politiche del 1994 che cambieranno la storia d’Italia. Per questo assistere a 1993, dopo aver visto 1992 e in attesa di 1994, è un po’ come guardare la trilogia prequel di Star Wars (gli episodi I, II e III): sappiamo che sta per succedere qualcosa di eclatante – la creazione di Darth Vader – e ad ogni passo che ci avvicina a questo momento la temperatura si alza. Da quel discorso di Dell’Utri al manager Leo Notte (Stefano Accorsi) sulla “Repubblica delle Banane” avevamo capito che 1992 non sarebbe stata solo una serie su Tangentopoli, ma anche su tutto quello che sarebbe arrivato dopo. E anche 1993 ce lo conferma.

La televisione ha tempi diversi, tempi che il cinema non può permettersi. La televisione può prendersi il tempo per raccontare un fatto partendo da molto lontano, approfondire, suggerire, immaginare. Perché, se i fatti storici scanditi dalle date precise – dall’attentato a Roma vicino al Teatro Parioli all’inizio del processo Cusani – sono realmente accaduti, sono immaginarie le storie dei protagonisti della serie, e i legami tra i personaggi storici e quelli di finzione. Non tutto è vero, ma è verosimile. E allora, se un film come Il Caimano per raccontare Berlusconi andava solo sui fatti salienti, qui è ancora una volta illuminante viaggiare dietro le quinte della nascita di Forza Italia, capire i ragionamenti che ne hanno lanciato l’idea, il nome (che non aveva in sé la parola “partito” così detestata in quei giorni), i meccanismi con cui fu organizzato il movimento (dai provini televisivi al vademecum del candidato). Nella discesa agli inferi che sono stati gli anni dal ’92 al ’94 il nostro Caronte è il Leo Notte di Stefano Accorsi, è lui a traghettarci nei meandri della destra e della sinistra (il discorso sulla leadership con Massimo D’Alema/Vinicio Marchioni, che si prende gioco e sottovaluta Berlusconi come avversario sono tra i momenti migliori della serie). Notte, anello di congiunzione tra la Milano da bere e il Patick Bateman di American Psycho di Bret Easton Ellis, non è un personaggio reale ma è paradigmatico. Così come lo sono gli altri personaggi inventati.

Se 1993 non è l’House Of Cards italiano (troppo diverse le strutture, la serie americana è totalmente finzione anche se ispirata su basi reali, la nostra intreccia di continuo finzione e Storia), è anche vero che pendiamo dalle labbra di Leo Notte e di Veronica Castello (Miriam Leone, ancora una volta strepitosa), la soubrette pronta a qualsiasi cosa per il successo, come lo facciamo con Frank Underwood. È vero, sono personaggi negativi, ma tifiamo perché si tirino fuori dai guai: senza di loro si interromperebbe il racconto, mancherebbe il motore della storia, le rivelazioni che vogliamo sapere. I personaggi di finzione di 1993 sono paradigmatici degli italiani che erano e che sarebbero stati: gli arrivisti politici pronti a cambiare casacca (Leo Notte), le soubrette pronte a candidarsi grazie al loro bel volto (Veronica Castello), gli idealisti che si propongono come puri e sono destinati ad annegare nel mare politico romano e a uniformarsi agli altri (il Pietro Bosco di Guido Caprino, leghista, un puro che perde la propria verginità), gli imprenditori che scendono a patti con la criminalità organizzata (la Bibi Mainaghi di Tea Falco). Pastore, il poliziotto malato di Aids di Domenico Diele è forse l’unico personaggio positivo. Ma solo in parte: in fondo è animato dalla vendetta più che dalla giustizia. Accanto ai cinque personaggi inventati, sin dai titoli di testa, c’è Antonio Di Pietro (Antonio Gerardi) personaggio reale che qui acquista una valenza quasi mitica.

Sì, perché ammantati dalla luce della scrittura e della narrazione filmica, figure come Di Pietro, ma anche Berlusconi (un sorprendente Paolo Pierobon), acquistano una statura diversa da quella che hanno oggi. Ripresi nel pieno della loro gloria, fissati in un tempo lontano, ignaro del loro declino, interpretati da attori che li disegnano in modo potente, sobrio, asciutto (lontani da caricature e da trucchi eccessivi), trasfigurati e arricchiti dalla scrittura, diventano personaggi letterari, archetipici, quasi mitici. In questo senso è da lodare, oltre alla scrittura di Sardo, Rampoldi e Fabbro, tra i migliori sceneggiatori italiani di oggi, anche il lavoro di costumisti e truccatori. La resa dei personaggi reali è ottima: gli attori non puntano a diventare i loro caratteri, ma “sono” quei caratteri. Non si punta alla somiglianza precisa, ma all’evocazione. Con gli estremi di Stefano Dionisi, grande sorpresa della serie, che è un Cusani mimetico e allo stesso tempo ricco di sfaccettature, e di Roberto Herlitzka, che è un Montanelli poco somigliante ma ugualmente autorevole, il successo di 1993, la miglior serie italiana che sia passata sui nostri schermi, è dovuto anche a queste figure. Molti dei personaggi, in varie scene, si guardano allo specchio. E guardare 1993 vuol dire guardarci allo specchio come italiani. Come eravamo, come siamo, cosa siamo diventati. E non è un caso che, in una delle tante (ma mai abusate) immagini di repertorio, appaia Beppe Grillo, quando ancora faceva il comico. 1993, oltre che un perfetto trattato di Scienza della Politica in immagini, è il grande romanzo popolare (e criminale) italiano.

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