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Ghost in the Shell. Siamo uomini o macchine?

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Uomini o macchine? O forse uno strategico intreccio di questi due elementi? È questa la domanda di fondo che rende affascinante, inquietante, attuale Ghost In The Shell, il film di Rupert Sanders con Scarlett Johansson, nelle nostre sale dal 30 marzo. È l’attesissima, e discussa, trasposizione in live action di un manga di culto di Masamune Shirow e di un film d’animazione di Mamoru Oshii, del 1996, che è quello che ha ispirato, più di ogni altra cosa, i Fratelli Wachowski per Matrix. Una ragazza si sveglia: chiede dov’è, e perché non sente più il suo corpo. Noi, che l’abbiamo vista creare artificialmente nell’affascinante prologo, lo sappiamo: il Maggiore Mira Killian – così la chiamano – ha un corpo completamente robotico, e di umano le è rimasto solo il cervello. È questo il Ghost, il fantasma, l’anima, nello Shell, il guscio, il corpo. Assegnata alla Sezione 9, creata contro il terrorismo, come arma letale, dovrà fare i conti con un misterioso terrorista. Ma anche con i propri demoni, il proprio passato, i propri ricordi. Saranno davvero i suoi ricordi? Ripensate a Blade Runner…

THE SHELL – IL GUSCIO. Il film di Sanders ha un guscio molto affascinante. È un film levigato, onirico e visionario. Deve molto alla visione del futuro di Blade Runner, film archetipico di tutte le rappresentazioni del nostro futuro. La Tokyo del film è una città abbagliante fatta di luci al neon, strade sopraelevate e giganteschi ologrammi pubblicitari che si muovono sopra i grattacieli come facevano le statue degli dei nell’antichità. Quella di Ghost In The Shell è la città verticale del film di Ridley Scott, o quella de Il quinto elemento e Star Wars: Episodio II – La guerra dei cloni. E intorno alla città sfavillante non mancano le zone degradate, gli appartamenti/cubicoli, le zone proibite. Accanto al classico immaginario fantascientifico c’è anche la tradizione giapponese, le maschere kabuki, geishe che sono robot pronti a trasformarsi in ragni meccanici. Ci sono le facce che si aprono come in Total Recall di Verhoeven. È un universo in parte derivativo, ma che riesce a trovare una sua originalità. C’è anche molto Matrix, nei movimenti e nelle evoluzioni dei personaggi, nei jack infilati nel nostro midollo spinale, in certi interni. Ma, come sappiamo, l’immaginario di Ghost In The Shell è venuto prima, e i film si influenzano a vicenda. Ghost In The Shell è il film che i Fratelli Wachowski vorrebbero riuscire a fare da più di dieci anni, senza riuscirci.

THE GHOST – IL FANTASMA. Anche l’anima del film è vicina a quella di Matrix, di Blade Runner, Terminator e la recente serie tv Westworld. È da parecchio tempo che un film non si interrogava in maniera così efficace su quello che sarà il futuro dell’uomo. O, forse, su quello che è già il presente. In un mondo come il nostro, dove sono già presenti protesi robotiche ed esoscheletri in grado di aiutare l’uomo – in caso di invalidità o di lavori pesanti o pericolosi – è interessante vedere l’evoluzione umana verso un ibrido tra uomo e macchina. Se infatti il Maggiore di Scarlett Johansson è il caso limite, un robot perfetto con un solo elemento umano, il cervello, vediamo varie persone che scelgono componenti robotiche per potenziare il proprio corpo: chi sceglie mani meccaniche con decine di dita per digitare più velocemente su un computer, chi si fa installare due lenti potentissime al posto degli occhi per vedere più lontano, al buio, ovunque, chi spende tutti i suoi averi per un fegato artificiale, per bere alcolici a volontà senza danneggiare il corpo. È proprio questa la chiave di lettura più interessante di Ghost In The Shell. Già domani, forse, potremo scegliere una via robotica per essere più forti, più veloci, più competitivi. Quello che fino a oggi era il ruolo di sostanze chimiche, droghe, elementi dopanti, potrebbe essere domani il ruolo della meccanica. In Ghost In The Shell c’è ancora l’incontro/scontro/confronto tra uomo e macchina. Ma se in Matrix, Blade Runner, Terminator era più facile capire da che parte stare – o si è uomo, o si è macchina, con buona pace del Deckard del Director’s Cut di Ridley Scott – qui è tutto più difficile, perché i confini sono sfumati, indefiniti. Saremo tutti un po’ uomini un po’ macchine. E allora, come sentiamo dire nel film, quello che ci definisce non sarà né il nostro guscio, né il nostro fantasma. Ma saranno le nostre azioni. Noi siamo, perché possiamo scegliere.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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