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T2 Trainspotting. La serata revival di Danny Boyle

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Una batteria arrembante, in quattro quarti, un basso pulsante. È il riconoscibilissimo incipit di Lust For Life di Iggy Pop, il pezzo che accompagnava la corsa a perdifiato di Mark Renton nell’incipit di Trainspotting. In T2 Trainspotting, sequel di quel film epocale, firmato sempre da Danny Boyle (nelle sale dal 23 febbraio), Mark torna a casa, riprende in mano quel disco, che vuol dire riprendere in mano la sua vita di vent’anni prima. Lo mette sul piatto, ascolta quell’attacco di batteria, due-tre battute, e lo toglie. Non è facile riprendere in mano la sua vecchia vita. Come non è facile, nel caso di Danny Boyle, riprendere in mano una vecchia opera. Soprattutto se questa ha segnato il suo tempo come poche altre. Sì, perché alla metà degli anni Novanta, si era creato l’humus ideale per creare qualcosa di nuovo. Si erano dispersi i fasti degli anni Ottanta, era finita l’era Thatcher e doveva iniziare l’era Blair: si potevano sollevare i veli su un’Inghilterra che era molto lontana da quella terra promessa sognata da tutti, e vederne le crepe. Nel cinema americano era passato Tarantino, e in tanti hanno visto che un nuovo cinema era possibile. E la musica, dopo i plastici anni Ottanta, era tornata a una fase di sperimentazione e di riscoperta, nascevano nuove tendenze, come la scena rave e techno (gli Underworld) e il britpop (i Blur), e si riscoprivano i grandi del passato (Iggy Pop, appunto, e Lou Reed). Insieme a New Order e Blondie, questi nomi, uniti allo stile irriverente, sporco, frenetico, potremmo dire punk, di Danny Boyle, avevano creato qualcosa di unico. Ci sembrava che Boyle avesse portato il rock nel cinema. E poi c’era la droga: per la prima volta si ammetteva che ce ne fosse tanta, che fosse ovunque. Ma senza alcuna fascinazione: alcune scene terribili erano lì a dimostrarlo.

Per questo T2 Trainspotting è un film attesissimo. L’assassino è tornato sul luogo del delitto: Danny Boyle, vent’anni dopo, ha girato il seguito, ispirato solo in parte a Porno, il romanzo che Irvine Welsh scrisse nove anni dopo Trainspotting. La storia vede i nostri (anti)eroi ormai cinquantenni: è sparita la dipendenza da eroina, ma non le loro vite irrisolte, come è irrisolta la questione di quei soldi rubati da Mark Renton (Ewan McGregor) vent’anni prima. La morte della madre lo fa tornare a Edimburgo da Amsterdam, dove vive, sposato, e ritrovare Sick Boy (Jonny Lee Miller), Spud (Ewen Bremner) e Begbie (Robert Carlyle). Il primo gestisce un pub, ma vive di piccoli ricatti sessuali con Veronika, ragazza bulgara, un po’ complice e un po’ amante. Il secondo è diventato padre, ma ha perso il lavoro, la famiglia ed è ricaduto nella droga. Il terzo, in galera, evade e trova un figlio che non è come lui, ma ha deciso si studiare.

La ricetta del secondo Trainspotting sembra riprendere quella dl primo: stesso montaggio frenetico, stessa ricchezza di trovate visive, stessi suoni potenti (con Iggy Pop e Lou Reed che, insieme agli Underworld, fanno comunque capolino) e stesse scene forti e disgustose. A proposito, c’è ancora una scena in un bagno pubblico, ma punta sulla comicità, invece che sul disgusto. A cambiare è il senso del film: al posto di quel diamante grezzo e punk, c’è un film ben confezionato e mainstream. Come il suo Mark Renton, anche Danny Boyle si fa prendere la mano dalla nostalgia – che è il tema centrale del film – e molto più di quello che vorrebbe il suo pubblico. Il suo film è come una di quelle serate revival che si vedono nel film, dove tutti cantano in coro Radio Ga Ga e battono le mani. Così ne esce un prodotto che è emozionante all’inizio, divertente nel mezzo e deprimente nel finale. Un buon film, che però non ha lontanamente l’impatto e la rilevanza che ebbe Trainspotting per la sua epoca. Non che Boyle non ci provi: e, se accanto alla Edimburgo disgustosa del primo film ne mostra alcuni scorci bellissimi, prova ad accennare alle migrazioni, ai social network (mettendoli nel nuovo monologo “Choose Life”, insieme a un omaggio a George Michael, di Mark Renton, che stavolta arriva a metà film), ma non sembra saper leggere i tempi che stiamo vivendo come aveva fatto anni addietro. Che non siano facilmente leggibili da nessuno, è un altro discorso.

E poi Danny Boyle, oggi lo abbiamo capito, non era quel regista punk rock che avevamo creduto. Con le sue opere successive si è dimostrato un regista molto versatile, bravissimo, furbo, ma anche discontinuo, uno che comunque cerca di mettere il suo stile al servizio delle storia. E così ritorna a Trainspotting dopo aver girato uno dei suoi film migliori, e anche più distanti da Trainspotting (Steve Jobs, una pièce teatrale in tre atti che diventa magicamente cinema). Il suo T2 Trainspotting è come quella canzone di Iggy Pop che sembra partire, non parte mai, e quando parte, scopriamo che è cambiata. È un remix. Bello, ma non è l’originale.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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