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Mindhunter. David Fincher viaggia nella mente dei serial killer

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Charles Manson è morto in questi giorni, poco dopo il rilascio su Netflix di Mindhunter, la nuova serie firmata da David Fincher. La notizia ha suscitato un clamore degno di una rockstar. Segno che i serial killer sono parte della recente storia americana. Il fantasma di Charles Manson aleggia, senza comparire sullo schermo, nei dialoghi degli agenti FBI. Mindhunter racconta la storia di Holden Ford (Jonathan Groff) e Bill Tench (Holt McCallany): il primo è un negoziatore che, dopo la morte di un criminale in un’operazione, viene messo a insegnare alla scuola dell’FBI; il secondo è un formatore, e gira per gli stati americani a insegnare le tecniche dell’FBI alla polizia locale. I due vengono affiancati e cominciano a girare gli States. Ma con un’idea: accanto alla formazione, visiteranno le carceri, armati di microfono e registratore, per intervistare gli assassini seriali, quelli che si sono macchiati dei crimini più efferati.

Come faceva Clarice Sterling con Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti. Ma senza quella rassicurante parete di vetro davanti. E, soprattutto, non con la motivazione di risolvere un caso preciso. L’obiettivo è conoscere i criminali, viaggiare nella loro mente, studiarli scientificamente, a livello statistico. Un po’ come Masters e Johnson, quelli di Masters Of Sex, ma per il crimine. “Come possiamo anticipare un folle, se non sappiamo come pensa un folle?” si chiede Ford. Così assistiamo, insieme a lui e al suo collega, tra incredulità e senso di pericolo imminente, ai racconti – fatti con la massima tranquillità – di efferati assassini. Non vediamo quasi niente, tranne qualche reperto, qualche foto da lontano. Ma i brividi ci vengono perché sono storie vere: sono quelle raccontate nel libro Mindhunter: Inside FBI’s Serial Crime Unit di John R. Douglas.

Proprio per riprodurre questo senso del reale, Mindhunter adotta una forma visiva realistica, rigorosa: non a caso i registi chiamati a dirigere le puntate, insieme a David Fincher, sono dei documentaristi come Asif Kapadia (Senna, Amy), Andrew Douglas, Tobias Lindholm. Lo stesso Fincher limita i suoi virtuosismi, per creare un prodotto che fa pensare immediatamente al suo Zodiac, il suo film più misurato, dedicato all’assassino che seminò la morte nella Baia di San Francisco nel ’68 e nel ’69. Qui siamo alla fine degli anni Settanta, e l’immagine ha la grana e i colori di quegli anni. Tutto è tra il grigio e il marrone, un po’ sporco, monocromo. Fincher ci regala comunque dei colpi di classe, come quel montaggio frenetico, alla Fight Club, che evoca la routine, la ripetizione quotidiana, nell’episodio II.

Ma c’è molto altro di Fincher, a guardare bene. Tench e Ford sono un po’ come i Somerset e Mills di Seven, il poliziotto esperto e provato, e il giovane con il fuoco addosso. E ci sarà anche una cena ad avvicinarli. E certi scambi di battute, come l’esplosivo primo incontro tra Ford e Debbie (Hannah Gross), l’agente e la hippie, gli opposti che si attraggono, a base di Durkheim e di sociologia, è degno di certi scambi tra Edward Norton e Helena Bonham Carter in Fight Club. Se i titoli di testa di Seven viaggiavano tra gli inquietanti reperti della scena del crimine, quelli di Mindhunter scivolano, con la macchina da presa vicinissima, sui ferri del mestiere, gli strumenti che gli agenti usano per la ricerca: microfoni e registratori a bobina (ma con velocissimi, quasi subliminali, inserti sulle scene del crimine). Registratori, microfoni, proiettori per le diapositive, entrano spesso nelle scene di Mindhunter: ingombranti, pesanti, difficili da trasportate. In Mindhunter c’è sempre l’idea di un lavoro non tanto pericoloso – come è solito nei thriller- quanto faticoso, sfiancante, pesante.

Lo è a livello fisico. Ma anche mentale. Una delle cose che più colpiscono di Mindhunter, man mano che ci avviciniamo al finale di stagione, è l’impossibilità di lasciare questo mondo di sangue al di fuori della propria vita, come vediamo nella puntata in cui i casi “entrano” in casa di Tench. Lungo tutta la durata della serie, le storie dei delitti si intrecciano in modo intrigante con le vite private degli agenti. Il sesso tra Ford e Debbie appare sempre gioioso, sfrenato, in contrasto con le devianze, quasi sempre ti tipo sessuale, dei killer. Almeno fino a che non entrano in scena, nella loro vita, quelle scarpe di cui un killer è feticista. O ancora, ci si sofferma sulla presenza/assenza di Tench per il figlio, proprio quando l’agente è reduce da un caso in cui l’assenza del padre ha contribuito a formare l’identità di un assassino.

Il punto è questo. Entrati nella mente dei serial killer è difficile uscirne. Per farli aprire tocca aprirsi a loro. E, una volta entrati in essi, non è facile far sì che non entrino in te. Mindhunter racconta bene queste zone grigie tra bene e male. Lo aiutano degli attori non molto noti, che favoriscono immediatamente l’identificazione con i personaggi. Jonathan Groff, che viene da Glee (ed è stato la voce di Kristoff in Frozen), ha il volto pulito di un giovane Ewan McGregor, ma trasuda emozioni dietro all’apparente freddezza. McCallany è stato già con Fincher in Fight Club e Alien 3, riesce a nascondere le fragilità dietro al fisico possente e i modi burberi. Hannah Gross ha un fisico nervoso e atletico e occhi blu che trasudano profondità e intelligenza. Infine c’è la professoressa Wendy Carr di Anna Torv, che entra in sordina nella serie, ma ci conquista sempre più con il passare del tempo, è enigmatica e sexy nelle sue gonne attillate a vita alta e le camicette stampate in puro stile Seventies. Intrigante, pur non essendo bellissima, ha il sorriso enigmatico della Gioconda, o, se volete, il sorriso arcaico di cui parlava Henri-Pierre Rochè in Jules et Jim.

A proposito di opere d’arte, la cornice d’epoca di Mindhunter è anche l’occasione, come abbiamo visto in Stranger Things, di ascoltare le canzoni di quegli anni. Qui il lavoro è più sottile. Sia perché ripesca brani meno scontati (come per David Bowie, di cui ascoltiamo Right, da Young Americans, alla fine dell’episodio 3, proprio nel momento in cui facciamo la conoscenza con il sorriso arcaico di cui sopra), sia perché usa canzoni a tema, come Psycho Killer dei Talking Heads, e I Don’t Like Mondays dei Boomtown Rats di Bob Geldof. Una canzone che racconta la storia di una sedicenne protagonista di una sparatoria nella scuola di fronte a casa sua, in cui uccise due persone e ne ferì nove. Un’altra storia efferata come quelle che ascoltiamo in Mindhunter. Ricordatevelo sempre, con David Fincher tutto torna.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 

 

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Fallout: Se la catastrofe nucleare è un (video)gioco… e una serie, su Prime Video

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L’inizio di Fallout, la nuova serie Prime Video, è – letteralmente – esplosivo.  Siamo in un mondo in cui sembra tutto tranquillo, idilliaco. Siamo negli anni Cinquanta, in America, in quell’atmosfera inconfondibile, patinata. È una festa di compleanno per bambini, dove l’attrazione è stata un cowboy con il suo cavallo. Ogni cosa sembra perfettamente tranquilla, ideale. Se non fosse che c’è una strana inquietudine che traspare da un programma tv. “Come posso fare le previsioni per la prossima settimana, se non so se ci sarà una prossima settimana?” esclama lo speaker delle previsioni del tempo. Fuori, quel cowboy e la sua bambina si chiedono se stia per accadere un’esplosione. “Dicono che devi guardare il pollice” dice il padre. “Se la nuvola è più piccola devi correre oltre le colline. Se è più grande, non occorre che ti preoccupi di correre”. “Il tuo pollice o il mio?” chiede la bambina. Ma il papà non ha tempo di rispondere. L’esplosione avviene prima negli occhi di chi sta guardando, e poi nei nostri, come in Oppeheimer. È un fungo atomico, che si alza altissimo nel cielo. È enorme. E inarrestabile. Ma è solo l’inizio.

La storia di Fallout inizia 219 anni dopo. L’umanità esiste ancora, non si è estinta. Vive nei “vault”, dei rifugi sotterranei, fatti di cunicoli, dove prova a condurre una vita normale. E a riprodurre quella vita tranquilla dell’America del 1950. Ma si fa presto a dire una vita normale. Si sente il suono di allarmi, sirene, rumori meccanici. E, lì sopra, c’è il mondo reale. Lucy, la protagonista, sta per sposarsi. Ha l’abito bianco, il padre la accompagna all’altare. Ma non conosce chi andrà a sposare….

Fallout è basata sul popolarissimo franchise di videogiochi retro-futuristici. Gli esperti in materia videoludica hanno accolto con grande entusiasmo la serie, che è stata definita uno dei migliori adattamenti da videogame mai realizzati. Il videogame è stato adattato per lo schermo da Jonathan Nolan e Lisa Joy, i creatori della serie cult Westworld. In comune con Westworld Fallout ha molte cose. È una storia che guarda al futuro, ma anche al passato (retro-futuristica, appunto, come il gioco), con un contrasto che, nello spettatore, crea un cortocircuito, ma anche curiosità e interesse. È una storia di esseri che cercano la loro anima, la loro speranza, in un mondo arido e desertificato, nella forma come nei valori.

Quello che a prima vista colpisce in Fallout è lo scenario. Se ci pensate, i racconti post-apocalittici, post-atomici, distopici, sono tutti permeati di toni – di racconto e di colori – cupi, plumbei, desolati. In Fallout la desolazione prossima ventura c’è, e non potrebbe essere altrimenti. Ma accanto ci sono i colori accesi delle tute, la patina anni Cinquanta e Sessanta, un’ironia e un dark humour che rendono tutto molto particolare e inaspettato. La musica dei Fifties e dei Sixties contribuisce a creare l’atmosfera e a fare da contrasto. Sentire la musica di Johnny Cash, la sua voce baritonale, le chitarre country-blues in un’azione ambientata nel futuro, e in una scena molto violenta, quella di un pestaggio, spiazza lo spettatore. E, sì, funziona.

Al centro di questo mondo originale ci sono gli attori, corpi che devono essere in grado di trasformare le creature in pixel del videogioco in esseri in carne ed ossa. In questo senso, Ella Purnell, nei panni della protagonista Lucy, è perfetta. La ricordiamo nel ruolo di Jackie nella serie Yellowjackets, ma è una vera veterana (è stata nel cast di Non lasciarmi e Maleficent, interpretando la versione giovane dei personaggi di Keira Knightley e Angelina Jolie). La Lucy di Ella Purnell ha degli occhi enormi, sgranati, un viso regolare. Sembra davvero disegnata da un computer come se fosse davvero fatta di pixel. Accanto a lei, nel ruolo del padre, c’è Kyle MacLachlan, l’indimenticato agente Dale Cooper di Twin Peaks. Uno che di atmosfere misteriose (ma, in fondo, anche ironiche e surreali) se ne intende. Qui ci sembra in uno dei ruoli migliori della sua carriera, e da tempo non lo vedevamo così a fuoco in un personaggio. Nel cast ci sono anche Walton Goggins (The Hateful Eight), Sarita Choudhury (Homeland) e Michael Emerson (Lost e Person of Interest). Di più non possiamo raccontarvi per non guastarvi la sorpresa. Fallout è una serie che va vista. Che siate amanti dei videogame o meno.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Il giovane Berlusconi – dall’11 aprile su Netflix

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Un racconto vero, ironico, controverso, ricco di archivi e storie mai raccontate prima: le testimonianze di uomini e donne che, per motivi diversi, hanno conosciuto Silvio Berlusconi, dagli esordi degli anni ‘70, da Milano 2 all’invenzione della TV commerciale fino alla discesa in campo.

Dentro gli archivi iconici e inediti, e tra le testimonianze dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi – personaggi noti, ma anche tecnici, autori, pubblicitari, figure chiave che hanno contribuito al suo successo personale e a quello della sua televisione – e di coloro che lo hanno avversato e criticato.

Un racconto avvincente, dietro le quinte dell’impresa culturale che ha cambiato il costume e i consumi di intere generazioni, prima in Italia e poi in tutta Europa, la TV commerciale: “Il giovane Berlusconi” arriva in streaming dall’11 aprile, in Italia su Netflix e a seguire in molti altri paesi partendo da Francia, Germania e Austria dove verrà trasmesso da ZDF Arte e ORF.

La docuserie è una produzione B&B Film in coproduzione con la società di produzione tedesca Gebreuder Beetz Filmproduktion e con l’emittente franco tedesca ZDF Arte, co-finanziata dalla Regione Lazio (Lazio Cinema International), dal programma Media di Europa Creativa, realizzata anche grazie al Tax Credit del MiC.

La docuserie – composta da tre episodi – tratta del successo di Silvio Berlusconi dai suoi esordi come imprenditore all’invenzione della televisione commerciale alla metà degli anni ’70 fino alle elezioni politiche del ’94.

Figlio del boom economico dei primi anni ’60, Silvio Berlusconi si lancia, come molti in quegli anni, nel business dell’edilizia. Realizza Milano 2, una new town avveniristica immersa nel verde, dove per evitare la selva delle antenne sui tetti, si progetta, per la prima volta in Italia, la cablatura di tutta la cittadina con il cavo coassiale. Ed è così che, nel 1974, in un sottoscala nasce una televisione al servizio dei residenti che possono seguire la messa, le riunioni di condominio, le attività sportive dei propri figli e la pubblicità del negoziante sotto casa. Nessuno avrebbe immaginato che da lì a poco la televisione condominiale di TeleMilanoCavo si sarebbe trasformata in uno dei più grandi gruppi televisivi privati europei.

La situazione delle emittenti private a metà degli anni ’70 è paragonabile a un “mucchio selvaggio” e Berlusconi fiuta l’affare: la televisione privata è il business del futuro. Vuole dei programmi vivaci, colorati, ma al tempo stesso rassicuranti, e la pubblicità deve esserne l’anima. Il monopolio della Rai viene aggirato dal cosiddetto “pizzone” di Berlusconi, un nastro registrato con programmi e pubblicità che viene consegnato a tutte le emittenti, sparse lungo il territorio nazionale, affiliate con Canale5, che ha ormai sostituito TeleMilano. Con questo escamotage rudimentale quanto geniale, una piccola televisione locale di Milano riesce a far sentire la sua voce in tutta Italia e a vendere tanta, tantissima, pubblicità.

E così, durante la coda sanguinosa degli anni di piombo Berlusconi fa sognare i telespettatori, raccontando un’Italia che ancora non esiste, ma che si paleserà da lì a poco. Intere generazioni crescono davanti ai teleschermi del gruppo Fininvest, che mandano in onda telequiz, soap opera, telefilm americani, cartoni animati giapponesi, calcio, programmi comici.

Berlusconi parla al consumatore e agli inserzionisti, mentre la TV di Stato si rivolge al cittadino: da questo momento i confini tra i due mondi si faranno più labili, la comunicazione berlusconiana plasma un pubblico nuovo, che presto diventerà elettorato. E non si ferma: per tutti gli anni ’80 l’impero di Berlusconi cresce così a dismisura, inglobando, oltre alle televisioni e alla pubblicità, anche l’editoria, giornali, riviste, assicurazioni, banche, catene di negozi e una squadra di calcio, l’AC Milan, rendendo ancora più popolare la sua immagine di imprenditore di successo.

La docuserie racconta la straordinaria storia di una delle più famose e controverse personalità europee. Tre puntate della durata di 50’ ciascuna, nessun narratore, ma un cast selezionato di testimoni, capaci di confidenze e aneddoti inediti. Un racconto vero, sincero, emotivamente coinvolgente, ricco di storie mai raccontate prima. Oltre alle interviste, la serie è costituita da materiale di repertorio, in parte inedito o raro.

Divertente, sorprendente, ironica: la serie usa la musica, gli archivi e i racconti personali come elementi chiave di una storia di grande impatto visivo, con una forte costruzione drammaturgica, una scrittura capace di raccontare cos’è stato Berlusconi non solo al pubblico italiano, ma anche agli spettatori internazionali.

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Antonia: Chiara Martegiani, le donne dolcemente complicate e l’attitudine punk… Su Prime Video

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Siamo così, è difficile spiegare, certe giornate amare, lascia stare…” Era una canzone che cantava Fiorella Mannoia, si chiamava Quello che le donne non dicono e – anche se l’aveva scritta un uomo, Enrico Ruggeri – raccontava benissimo le donne e quel loro essere “dolcemente complicate”. Quella canzone ci è venuta in mente guardando Antonia, la nuova serie con Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea, diretta da Chiara Malta, in streaming su Prime Video dal 4 marzo, proprio perché riesce a raccontarci davvero bene le donne di oggi. E perché riesce a farlo in modo inedito, non allineato. Racconta le trentenni di oggi, e quei momenti in cui capita loro di sentirsi in crisi, di non sapere in che direzione andare. E anche una malattia come l’endometriosi, poco conosciuta, ma che colpisce davvero tante donne. È una serie tachicardica, ritmata, spassosa, e anche dolorosa, che si candida ad essere una delle serie italiane dell’anno. Da non perdere assolutamente.

Antonia (Chiara Martegiani), dopo aver lasciato la sua famiglia poco più che adolescente, ha trovato una sorta di equilibrio a Roma, una giungla urbana ed emotiva perfetta per integrarsi senza dover fornire troppe spiegazioni. Antonia fa l’attrice (in realtà, una comparsa parlante…) in una soap opera, ha un compagno comprensivo, Manfredi (Valerio Mastandrea), e una coppia di amici che ha appena avuto una bambina. Ma, al suo 33esimo compleanno, il suo piano di difesa fallisce: litiga con tutti, viene licenziata e finisce in ospedale, dove scopre di avere l’endometriosi, malattia cronica che, senza che Antonia se ne rendesse conto, ha influenzato tutta la sua vita. Attraverso uno strano percorso di psicoterapia, la scoperta della malattia diventerà però un’occasione per conoscersi e smettere di scappare, iniziando ad affrontare i nodi della sua vita.

Chiara Martegiani, anche autrice della serie insieme a a Elisa Casseri e Carlotta Corradi, tra scrittura e interpretazione riesce a disegnare un ritratto di donna memorabile. Antonia è urticante, scontrosa, insopportabile. Eppure, a suo modo, è adorabile, irresistibile. E poi capiamo ben presto che un motivo perché è così ce l’ha. Per il suo taglio, la sua irriverenza, lo sguardo ironico al femminile, Antonia, ancor prima dell’uscita, è stata definita subito la Fleabag italiana. Ma confessiamo che abbiamo provato subito molta più empatia con Chiara Martegiani e la sua Antonia che con la fredda Phoebe Waller-Bridge.

Labbra rosso Coca-Cola, come diceva un’altra canzone, occhi neri enormi, vispi e caldi, Antonia ha un viso che buca lo schermo e un corpo che lo riempie e detta la linea del film. Antonia ha le gambe lunghissime, l’andatura disordinata e dinoccolata. La sua falcata nervosa e veloce detta il ritmo della serie, che è fremente e indiavolato. La regista Chiara Malta ha scelto di mettere la macchina da presa costantemente su di lei e di costruire il ritratto di una donna scassata, non performante. Ha preso una palla di spugna e l’messa sotto la macchina da presa per dare questo senso di instabilità all’inquadratura, che è l’instabilità della vita di Antonia.

Valerio Mastandrea, compagno di Chiara Martegiani nella vita oltre che sul set, è Manfredi, e porta in scena tutto lo spleen tragicomico che è in grado di dare ai suoi personaggi, il suo lavoro di sottrazione, l’ennesima sfumatura del tipo di uomo che ha raccontato per tutta la sua carriera. Nel ritratto di Manfredi si legge il bisogno di raccontare maschi che di solito non si raccontano, maschi fragili che nella loro fragilità trovano la loro sicurezza. Come faceva, già 40 anni fa, il grande Massimo Troisi. Nel casto ci sono anche Chiara Caselli, la madre problematica di Antonia, Emanuele Linfatti, nel ruolo di Michele, uno sconosciuto che diventa amico di Antonia, Tiziano Menichelli, che dà il volto a Nico, il figlio di Manfredi, e Hildegard Lena Kuhlenberg, che è Gertrud, la pittoresca agente di Antonia che vive perennemente nel passato. Ma a conquistarci sono soprattutto Leonardo Lidi e Barbara Chichiarelli: sono Marco e Radiosa, una coppia che ha appena avuto una bambina. E sono anche loro in crisi, ma di un altro tipo.

Il personaggio di Antonia, lo vedrete, diventerà iconico. Il vestito nero con il colletto bianco e le spalle scoperte è già un cult. Così come il look da uomo, con giacca, camicia e una sottile cravatta scura. O ancora, il giubbino di jeans smanicato, anni Ottanta, con le spalline larghissime, portato con dei pantaloni della tuta in acetato. Nel look, come nel suo muoversi, nel reagire, nel suo essere Antonia sembra avere un’attitudine punk. Come recita il titolo della nota pagina Facebook, “adottare soluzioni punk per sopravvivere” potrebbe essere il sottotitolo della serie.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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