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Stranger Things 2. L’anima dei favolosi anni ottanta

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Chiamateli pure “i Favolosi anni Ottanta”. Sì, lo so: l’appellativo di “favoloso” è da sempre appannaggio degli anni Sessanta. Ma se pensiamo al significato letterale del termine, cioè “legato al mondo delle favole, leggendario, fantastico”, non possiamo negare come l’aggettivo calzi a pennello agli anni Ottanta. Per tutta una generazione quelli sono stati gli anni delle favole, nel senso che erano l’infanzia. Ma anche nel senso che proprio in quegli anni si è sviluppato un cinema “favoloso”, quello degli Spielberg e degli Zemeckis, di E.T. e de I Goonies, della (fine della) prima saga di Star Wars e di Indiana Jones. Cinema immaginifico, in grado di lasciare a bocca aperta i bambini, proprio come una favola, ma di ammaliare anche i grandi. O di continuare ad affascinare i bambini anche una volta grandi. Tutto questo è il cuore di Stranger Things, la serie tv (cioè il cinema di oggi) dei Duffer Brothers che ha visto, su Netflix, la seconda stagione. Un racconto che non è solo ambientato negli anni Ottanta: vive negli Ottanta, respira Ottanta, pensa Ottanta.

E inizia nel 1984, l’attesissima seconda stagione, a pochi giorni da Halloween. E i nostri eroi Will (Noah Schnapp), Mike (Finn Wolfhard), Dustin (Gaten Matarazzo) e Lucas (Caleb McLaughlin), ora al sicuro, si preparano alla notte dell’orrore, ancora inconsapevoli che l’orrore tornerà davvero. Il Demogorgone è sconfitto, ma dal Sottosopra, l’universo parallelo che si trova sotto al nostro mondo, ma riesce a comunicare con esso, sono in arrivo altri pericoli. Tutto questo mentre Undici (Mille Bobby Brown) è scomparsa. E nel gruppo arriva Max (Sadie Sink), detta Mad Max, una ragazzina dai capelli rossi, dai modi da maschiaccio e dalla dolcezza irresistibile. Mentre lo sceriffo Jim Hopper (David Harbour) continua ad indagare sui fatti strani di Hawkins, Indiana, il ponte tra il nostro mondo e lo spaventoso mondo che ci minaccia sarà ancora una volta il povero Will Byers…

Non vi sembrerà di guardare un film ambientato negli anni Ottanta. Vi sembrerà proprio di essere saltati sulla DeLorean di Marty McFly e di essere stati catapultati dal flusso canalizzatore indietro nel tempo, tanto la ricostruzione è riuscita, non solo a livello estetico, ma anche a livello di contenuti. Non è un’operazione nostalgia, né puro revival: il punto è che il cinema fantastico degli anni Ottanta è lo stile perfetto per raccontare quella che è una storia di paura del buio, di paura di crescere, di paura di amare e di confrontarsi con l’altro sesso. Tutte cose tipiche di un’età, al confine tra infanzia e adolescenza, che nessun altro cinema come quello degli Ottanta ha saputo raccontare.

Stranger Things ci riesce, e, nel gioco di suoni e citazioni, bisogna dirlo, ha vita facile: cinema e musica di quel periodo sono sì irripetibili, ma anche piantati fino in fondo nel cuore di chi ha vissuto quell’epoca. Ma ogni cosa in Stranger Things ha un senso. Nella prima stagione il brano eponimo era Should I Stay Or Should I Go dei Clash, al tempo stesso perfetta per rappresentare la ribellione di Jonathan Byers (Charlie Heaton) – come Atmosphere dei Joy Division ne sottolineava l’alienazione – e una melodia così “catchy” da conquistare anche un ragazzino, il fratello minore Will. Nella seconda stagione ogni canzone è uno stato d’animo: il momento liberatorio di una festa è Girls On Film dei Duran Duran, la fascinazione dei videogame Arcade è l’elettronica Whip It! dei Devo, Rock You Like A Hurricane dei Whitesnake è la perfetta presentazione di un bullo che arriva nella scuola. E Time After Time di Cindy Lauper, e ancora più Every Breath You Take sono la colonna sonora perfetta per un lento al ballo di fine anno (altro topos narrativo di un certo tipo di cinema/serialità, che qui arriva a fine stagione, mentre in Riverdale viene lanciato già nel pilota), ma anche un pezzo nervoso, oscuro, quasi un presagio di pericolo: Sting raccontò che il pezzo dei Police è considerato una canzone d’amore, ma in realtà parla di un’ossessione, di uno stalker. Basta guardare cosa accade quando la canzone si dissolve…

Anche nel cinema Stranger Things ha buon gioco. In fondo, come il cinema degli anni Ottanta, è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Da Terminator a Ghostbusters, fino ad Halloween, ci sono i film citati apertamente. Da Alien ai Gremlins fino a L’esorcista, ci sono i film che fanno capolino in certe situazioni. E poi ci sono E.T., Stand By Me, I Goonies, i film che sono i numi tutelari dell’operazione Stranger Things, quelli che definiscono un mood, un’atmosfera, un modo di intendere il cinema. A proposito di Goonies, poi, c’è anche Sean Astin.

In quel lontano 1984, o forse qualche tempo dopo, quei film li avrà visti quasi tutti una ragazzina di tredici anni, che di lì a poco sarebbe diventata una star. Winona Ryder, icona assoluta degli anni Novanta, sparita dai radar – ma mai completamente – dopo la storia del furto, torna con un grande ruolo, Joyce, la madre di Will, anche questo un topos di un certo cinema, la donna comune che sfodera coraggio (vedi la Sarah Connor di Terminator), senza paura di mortificare completamente la sua bellezza nella prima stagione (i registi le hanno chiesto di non sfoderare i proverbiali “occhioni alla Winona Ryder” e lei si è tagliata le ciglia) un po’ meno nella seconda. Uno dei punti di forza di Stranger Things è lei.

L’altro, grandissimo, punto di forza è l’Eleven (o Undici, o Undi) di Mille Bobby Brown. Non è bellissima: è che la disegnano così. La ragazzina “diversa”, con grandi poteri da cui, per ora, derivano più grandi dispiaceri che grandi responsabilità, è uno dei personaggi meglio scritti, e uno dei casting più azzeccati, della storia della tv: un misto di dolcezza e violenza, innocenza e forza, la diffidenza e l’apertura di un cucciolo ferito e bisognoso d’affetto, ma capace anche di cacciare. Allo stesso tempo una bambina che scopre la vita per la prima volta e un’arma letale. La sua storia è anche lo spunto per una digressione – la puntata 7, a Pittsburgh, con nuovi personaggi che sembrano fatti apposta per uno spin-off – e porta la serie dalle parti degli X-Men e tutto il discorso sui diversi. Se per tutta la prima stagione Undici portava il film dalle parti di E.T., ed era a tutti gli effetti l’alieno, la cosa strana da nascondere, la seconda stagione la vede diventare a tutti gli effetti una persona, un personaggio femminile: i capelli più lunghi, il look da teenager, i primi baci. Il suo ingresso in scena a Hawkins, nel penultimo episodio, è quello di una star. E c’è da scommettere che sarà proprio lei la chiave per lo “scontro finale” delle prossime stagioni. L’empatia verso il diverso è una delle chiavi di Stranger Things. E la sintetizza bene una battuta. “Le persone normali non fanno mai niente a questo mondo”. “Chi vorresti essere, Bowie o Kenny Rogers?

Stranger Things è magistrale per come riesce – proprio grazie al linguaggio del cinema degli anni Ottanta – a raccontare quella terra di mezzo tra infanzia e adolescenza dove si è ancora un po’ bambini, ma non del tutto, e non si è ancora ragazzi. Dove le paure dell’ignoto sono anche quelle dell’altro sesso, con le ragazze che sono ancora un po’ degli alieni, un mondo sconosciuto ma eccitante da scoprire, un po’ come i misteri del Sottosopra. In Stranger Things il ritorno ai Favolosi anni Ottanta non è solo forma: i Duffer Brothers riescono a cogliere lo spirito degli Eighties, l’anima di quegli anni, l’essenza di Spielberg e soci: l’ingenuità, lo stupore, quella sensazione di non avere limiti, di poter sconfiggere tutto insieme ai propri amici, di riuscire a fare qualsiasi cosa. Come volare, insieme a un amico di un altro pianeta, su di una bicicletta.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Antonia: Chiara Martegiani, le donne dolcemente complicate e l’attitudine punk… Su Prime Video

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Siamo così, è difficile spiegare, certe giornate amare, lascia stare…” Era una canzone che cantava Fiorella Mannoia, si chiamava Quello che le donne non dicono e – anche se l’aveva scritta un uomo, Enrico Ruggeri – raccontava benissimo le donne e quel loro essere “dolcemente complicate”. Quella canzone ci è venuta in mente guardando Antonia, la nuova serie con Chiara Martegiani e Valerio Mastandrea, diretta da Chiara Malta, in streaming su Prime Video dal 4 marzo, proprio perché riesce a raccontarci davvero bene le donne di oggi. E perché riesce a farlo in modo inedito, non allineato. Racconta le trentenni di oggi, e quei momenti in cui capita loro di sentirsi in crisi, di non sapere in che direzione andare. E anche una malattia come l’endometriosi, poco conosciuta, ma che colpisce davvero tante donne. È una serie tachicardica, ritmata, spassosa, e anche dolorosa, che si candida ad essere una delle serie italiane dell’anno. Da non perdere assolutamente.

Antonia (Chiara Martegiani), dopo aver lasciato la sua famiglia poco più che adolescente, ha trovato una sorta di equilibrio a Roma, una giungla urbana ed emotiva perfetta per integrarsi senza dover fornire troppe spiegazioni. Antonia fa l’attrice (in realtà, una comparsa parlante…) in una soap opera, ha un compagno comprensivo, Manfredi (Valerio Mastandrea), e una coppia di amici che ha appena avuto una bambina. Ma, al suo 33esimo compleanno, il suo piano di difesa fallisce: litiga con tutti, viene licenziata e finisce in ospedale, dove scopre di avere l’endometriosi, malattia cronica che, senza che Antonia se ne rendesse conto, ha influenzato tutta la sua vita. Attraverso uno strano percorso di psicoterapia, la scoperta della malattia diventerà però un’occasione per conoscersi e smettere di scappare, iniziando ad affrontare i nodi della sua vita.

Chiara Martegiani, anche autrice della serie insieme a a Elisa Casseri e Carlotta Corradi, tra scrittura e interpretazione riesce a disegnare un ritratto di donna memorabile. Antonia è urticante, scontrosa, insopportabile. Eppure, a suo modo, è adorabile, irresistibile. E poi capiamo ben presto che un motivo perché è così ce l’ha. Per il suo taglio, la sua irriverenza, lo sguardo ironico al femminile, Antonia, ancor prima dell’uscita, è stata definita subito la Fleabag italiana. Ma confessiamo che abbiamo provato subito molta più empatia con Chiara Martegiani e la sua Antonia che con la fredda Phoebe Waller-Bridge.

Labbra rosso Coca-Cola, come diceva un’altra canzone, occhi neri enormi, vispi e caldi, Antonia ha un viso che buca lo schermo e un corpo che lo riempie e detta la linea del film. Antonia ha le gambe lunghissime, l’andatura disordinata e dinoccolata. La sua falcata nervosa e veloce detta il ritmo della serie, che è fremente e indiavolato. La regista Chiara Malta ha scelto di mettere la macchina da presa costantemente su di lei e di costruire il ritratto di una donna scassata, non performante. Ha preso una palla di spugna e l’messa sotto la macchina da presa per dare questo senso di instabilità all’inquadratura, che è l’instabilità della vita di Antonia.

Valerio Mastandrea, compagno di Chiara Martegiani nella vita oltre che sul set, è Manfredi, e porta in scena tutto lo spleen tragicomico che è in grado di dare ai suoi personaggi, il suo lavoro di sottrazione, l’ennesima sfumatura del tipo di uomo che ha raccontato per tutta la sua carriera. Nel ritratto di Manfredi si legge il bisogno di raccontare maschi che di solito non si raccontano, maschi fragili che nella loro fragilità trovano la loro sicurezza. Come faceva, già 40 anni fa, il grande Massimo Troisi. Nel casto ci sono anche Chiara Caselli, la madre problematica di Antonia, Emanuele Linfatti, nel ruolo di Michele, uno sconosciuto che diventa amico di Antonia, Tiziano Menichelli, che dà il volto a Nico, il figlio di Manfredi, e Hildegard Lena Kuhlenberg, che è Gertrud, la pittoresca agente di Antonia che vive perennemente nel passato. Ma a conquistarci sono soprattutto Leonardo Lidi e Barbara Chichiarelli: sono Marco e Radiosa, una coppia che ha appena avuto una bambina. E sono anche loro in crisi, ma di un altro tipo.

Il personaggio di Antonia, lo vedrete, diventerà iconico. Il vestito nero con il colletto bianco e le spalle scoperte è già un cult. Così come il look da uomo, con giacca, camicia e una sottile cravatta scura. O ancora, il giubbino di jeans smanicato, anni Ottanta, con le spalline larghissime, portato con dei pantaloni della tuta in acetato. Nel look, come nel suo muoversi, nel reagire, nel suo essere Antonia sembra avere un’attitudine punk. Come recita il titolo della nota pagina Facebook, “adottare soluzioni punk per sopravvivere” potrebbe essere il sottotitolo della serie.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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The New Look: Christian Dior e la creazione come sopravvivenza. Su Apple Tv+

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Se non fosse che The New Look, la serie su Christian Dior, in streaming su AppleTv+ dal 14 febbraio, e Cristóbal Balenciaga, disponibile da qualche settimana su Disney+, appartengono a piattaforme diverse, potremmo pensare che oggi ci sia un universo condiviso dedicato al mondo della moda. Sì, proprio come avviene per i supereroi, quelli della Marvel e della DC. La storia di Dior e quella di Balenciaga, infatti, si intrecciano e vivono nello stesso mondo e lo stesso tempo, la Parigi dell’occupazione nazista dei primi anni Quaranta, dove, tra l’altro, vive un’altra grande della moda come Coco Chanel. Le loro storie hanno un prima e un dopo, ovviamente. Ma è in quel momento, e in quelli immediatamente successivi, che si sono incrociate e hanno lasciato il segno. È in quegli anni che è nata l’idea di Haute Couture, la moda fatta su misura, a mano, con tessuti unici e tagli unici. Un’industria che, come spiega Coco Chanel a un attonito Heinrich Himmler che la vorrebbe spostare da Parigi a Berlino, è composta da circa 20mila artigiani. Il Christian Dior che ci viene raccontato da The New Look è stato una nuova speranza. È stato l’idea che la moda potesse portare una ventata di bellezza e di positività dopo gli orrori della guerra. Oggi, che di guerre ne stiamo vivendo molte, alcune anche vicine a noi, ci piace questa idea che la moda, e in generale la bellezza, possano sbocciare una volta che, come tutti speriamo, le guerre siano spazzate via. È anche con questo mood che dobbiamo vedere una serie come The New Look.

Ambientata durante l’occupazione nazista di Parigi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, The New Look si concentra su uno dei momenti più cruciali del XX secolo, quando la capitale francese ha riportato in vita il mondo grazie a un’icona della moda: Christian Dior (Ben Mendelsohn). Mentre Dior sale alla ribalta con la sua rivoluzionaria e iconica impronta di bellezza e influenza, il primato di Coco Chanel (Juliette Binoche) come stilista più famosa del mondo viene messo in discussione. La saga intreccia le storie sorprendenti di personaggi contemporanei e antagonisti di Dior: dalla Grand Dame Coco Chanel a Pierre Balmain, Cristóbal Balenciaga e altri ancora e offre una visione straordinaria dell’atelier, dei disegni e degli abiti creati da Christian Dior grazie alla collaborazione con la Maison Dior.

The New Look si muove quindi nello stesso universo di Cristóbal Balenciaga, ma in realtà è molto diversa. Questo dipende dalla durata delle due serie, 6 episodi quella sullo stilista spagnolo e 10 questa. Ma molto dipende soprattutto sull’impostazione delle due opere. Cristóbal Balenciaga aveva l’intenzione di celebrare lo stilista di Madrid e l’arte del disegno, della sartoria, della scelta dei tessuti, la creazione e il rapporto tra gli abiti e lo spazio. La guerra e il nazismo erano parte di quella storia: veniva raccontata, ma in un episodio solo. Era un capitolo, fondamentale, ma da lasciare poi per andare avanti. Qui il racconto della Parigi occupata dai nazisti, di quegli anni terribili è invece il punto di partenza e il cuore stesso della storia. I creatori della serie, prima che l’arte degli stilisti, vogliono raccontarci il dolore e la sofferenza che li ha animati. Per farci capire come tutta la bellezza che è venuta dopo sia frutto di questo. Di un fango che è diventato il terreno dal quale sono nati i fiori.

Così, almeno per i primi cinque episodi, The New Look è qualcosa di molto diverso da quello che avevamo visto in Cristóbal Balenciaga e di quello che ci aspettavamo. Quei primi episodi sono duri, senza sconti, molto vicini a quei film di guerra e sul nazismo, che sono sempre molto carichi di commozione e che apprezziamo sempre. Ma che, magari, non ci aspettiamo di trovare in una serie dedicata un grande della moda. A tratti la serie scivola anche nella spy story, con la missione di Coco Chanel a Madrid per conto dei nazisti. In questo senso, The New Look pone una questione molto controversa: i diversi livelli di collaborazione con il nemico. Si collabora per sopravvivere, lo si fa in modi diversi. Si può farlo restando il più distante possibile. O avvicinandosi pericolosamente. In questo senso, la storia di Coco Chanel è la più controversa.

The New Look è creata da Todd A. Kessler, sceneggiatore de I Soprano e creatore di serie come Damages e, soprattutto, Bloodline. Una serie fatta di relazioni pericolose e legami familiari. Anche qui i legami familiari (il rapporto tra Christian Dior e la sorella Catherine, interpretata da Maisie Williams) e le relazioni pericolose, come quella tra Coco Chanel e alcuni esponenti del partito nazista, sono il cuore del racconto. Ma da Bloodline, soprattutto, arriva un grande attore come Ben Mendelsohn, che qui ci regala una prestazione sontuosa e carica di sensibilità. La sua interpretazione è tutta giocata sui mezzi toni, su una mimica facciale fatta di tanti minimi tic e di movimenti impercettibili. I suoi occhi azzurri sono finestre attraverso le quali leggere la disperazione, lo spaesamento, la paura, ma anche l’ispirazione e l’orgoglio. La bocca, tremante e mobilissima, la voce tenue contribuiscono al ritratto di un uomo mite e sensibile. Accanto a lui, come una vera e propria coprotagonista della storia, c’è Juliette Binoche, capace di dare corpo a Coco Chanel in tutte le sue contraddizioni, nel suo sarcasmo come nelle sue fragilità. Ma è l’intero cast a brillare: ci sono John Malkovich, nel ruolo di Lucien Lelong, Emily Mortimer, nel ruolo di Elsa Lombardi e Glenn Close nel ruolo di Carmel Snow, la giornalista di Harper’s Bazaar che coniò il termine “new look” assistendo alla prima sfilata di Dior nel 1947.

La storia della moda parigina comincia ad entrare in scena alla fine del quarto episodio quando si racconta come, il 28 marzo del 1945, al Louvre venne aperto il Theatre de la mode, una mostra della moda francese che raccolse oltre 100mila visitatori. Senza modelli e modelle, con abiti creati per essere indossati da manichini in miniatura. Ci parteciparono tutti i grandi nomi della moda francese, che lavorarono insieme a portarono speranza alla Francia. C’erano tutti i grandi nomi che ancora oggi esistono. E salvarono la moda francese dal rischio di estinzione. Tra tutti, i due modelli più apprezzati furono proprio quelli di Christian Dior. Alla fine del primo episodio, durante una lezione alla Sorbona di Parigi, Dior parla della guerra per spiegare il desiderio di sopravvivenza. E per dire una cosa fondamentale. “Per me la creazione è sopravvivenza”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Cristóbal Balenciaga: L’ultimo vero couturier, gli altri sono semplici stilisti. La serie è su Disney+

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“Lo riconoscerei anche se fossi cieca”. Lo dice una donna, una sera, mentre assiste a una sfilata. Sta parlando dello stile di Coco Chanel. Cristóbal Balenciaga è a quella sfilata ed è molto colpito da quelle parole. Sarà anche questa frase che lo spingerà a trovare uno stile personale, immediatamente riconoscibile. È un dettaglio che ci fa capire che cosa sia Cristóbal Balenciaga, la serie drama originale ispirata alla vita e all’eredità del creatore spagnolo di Guetaria, uno degli stilisti più iconici di tutti i tempi, in esclusiva dal 19 gennaio su Disney+. Nella serie, creata da Lourdes Iglesias e dai 12 volte vincitori del premio Goya Aitor Arregi, Jon Garaño e Jose Mari Goenaga (La trincea infinita), l’attore Alberto San Juan interpreta Cristóbal Balenciaga, un uomo enigmatico e di straordinario talento che sfidò le convenzioni sociali dell’epoca e rivoluzionò il mondo della moda.

Balenciaga nell’impero della moda sofisticata di Parigi
Parigi, 1971. Si tengono i funerali di Coco Chanel. In chiesa, una donna guarda insistentemente un uomo. Lui è Cristóbal Balenciaga, famoso stilista che si è ritirato ormai da tre anni. Lei è la giornalista del Times Prudence Glynn. Balenciaga per tutti è una sorta di mistero. Non parla mai, o quasi. Non appare quasi mai nemmeno in fotografia. La giornalista lo contatta per una lunga intervista che fa da cornice al racconto. Così torniamo indietro nel tempo. Balenciaga arriva a Parigi nel gennaio 1937, in fuga dalla Spagna di Franco, e nell’estate dello stesso anno presenta la sua prima collezione di Haute Couture parigina. Si è lasciato alle spalle una carriera di successo nei suoi atelier di Madrid e San Sebastian vestendo l’élite e l’aristocrazia spagnola. Ma i modelli che avevano fatto tendenza in Spagna non funzionano nell’impero della moda sofisticata di Parigi, dove Chanel, Dior e Givenchy sono il punto di riferimento dell’Haute Couture. Guidato dall’ossessione per il controllo in tutti gli aspetti della sua vita, Cristóbal Balenciaga definirà il suo stile e alla fine diventerà uno dei più importanti stilisti di tutti i tempi.

Cristóbal Balenciaga: uno stile folcloristico, esotico ed estetico
È tutta questione di stile. Le recensioni della sua prima sfilata parlano di uno stilista che conquista Parigi grazie alla semplicità delle linee e l’assenza di elementi superficiali. Parlano di vestiti eleganti, di semplicità sofisticata. Ma Balenciaga non è soddisfatto. Per lui questo è come un “sei”, una sufficienza. Nessuno parla di genialità. Cristóbal così studia, ci riflette, torna alle sue radici. Guarda delle foto e trova la sua ispirazione nei vecchi costumi spagnoli. Prende la tradizione e crea qualcosa di nuovo. Punta forte sui tessuti. Nasce così quello che viene definito uno stile folcloristico, esotico ed estetico allo stesso tempo.

Non piegarsi al prêt-à-porter
La serie affronta diversi aspetti della vita di Balenciaga. Ognuno dei sei episodi è come se fosse un film. Il secondo episodio, The Occupation, ad esempio, racconta la sopravvivenza della sua maison, e del mondo della moda, all’occupazione nazista di Parigi, un momento durante il quale c’è chi definisce lo stile di Balenciaga una sorta di ribellione attraverso dei cappelli provocatori. Il terzo episodio, A Rival To Balenciaga, racconta il confronto tra lo stilista spagnolo e un altro grande della moda, Christian Dior. Uno stilista che è più bravo in una cosa rispetto a Balenciaga: comunicare. E così la sua presenza lo spinge ad aprirsi, a comunicare di più. In qualche modo, a fare marketing. Il quarto episodio, Replicas, racconta lo sbarco di Balenciaga negli Stati Uniti e la questione delle repliche. Il mercato presenta delle copie degli abiti dei grandi stilisti, e questi sono economici. Per cui gli americani che producono Balenciaga negli States vorrebbero usare dei tessuti locali, per essere più competitivi a livello di prezzi. Ma Cristóbal è contrario. E sceglie di creare da sé i propri tessuti. L’episodio 5, Dressing A Queen, parla del suo non volersi piegare al prêt-à-porter, e il racconto della nascita dell’abito nuziale di Fabiola, futura regina consorte del Belgio.

Una serie compassata, riflessiva e, ovviamente, elegante
La Spagna, in questi anni, ci aveva abituato a uno stile ben preciso di serialità. Da La casa di carta a White Lines, da Elite a Sky Rojo, sono arrivati a noi sempre prodotti dal forte impatto, adrenalinici, tachicardici, a volte anche grossolani. Cristóbal Balenciaga ci mostra un altro lato della serialità spagnola, come questa storia ha bisogno. Più compassata, riflessiva e, ovviamente, elegante. Non è chiaramente una serie che colpisce per il ritmo e l’azione, ma per lo stile, la classe. E l’approfondimento. Mette in scena infatti vari lati dello stilista, anche quelli più controversi, come quando, durante l’occupazione nazista, non si schierò apertamente contro il regime.

Una serie imperdibile per chiunque si interessi di moda
Quello che conta è che è una serie imperdibile per chiunque si interessi di moda. La cosa più emozionante è poter entrare dietro le quinte di questo mondo. Addentrarsi tra le mura di una casa di moda. Studiare i modelli, viaggiare nelle sartorie, avere quasi la sensazione di toccare le preziose stoffe. Vedere uno stilista mentre cura ogni minimo dettaglio. E vivere quei momenti febbrili prima e dopo una sfilata. È un documento prezioso, perché tra una sequenza e l’altra di girato, inserisce anche alcune immagini di repertorio, con i veri abiti della maison Balenciaga. Guardate le prime immagini dell’episodio 6, I Am Balenciaga, che ci riportano negli anni Sessanta, e – tra girato e repertorio – ci raccontano la fine della storia.

Belén Cuesta è Fabiola de Mora y Aragón, regina del Belgio
Cristóbal Balenciaga è interpretato da Alberto San Juan.  Belén Cuesta (che avevamo visto ne La casa di carta) è la famosa Fabiola de Mora y Aragón, regina del Belgio. Ma hanno dei ruoli importanti anche Josean Bengoetxea, che è l’uomo d’affari di San Sebastian, Nicolás Bizkarrondo e Thomas Coumans, Wladzio D’Attainville, socio e partner commerciale di Cristóbal Balenciaga. Gemma Whelan è Prudence Glynn, la giornalista del Times, e Anouk Grinberg è la leggendaria Coco Chanel. Patrice Thibaud è un altro personaggio chiave, Christian Dior, e Anna-Victoire Olivier è l’attrice Audrey Hepburn. Ma ogni attore “scompare” nel suo personaggio ed è funzionale alla storia. Ognuno è la tessera di un mosaico, ognuno contribuisce a creare quello che non è solo il racconto di Balenciaga, ma un affresco su un’età dell’oro della moda. Una menzione, in questo caso, va fatta per i costumisti: sono Bina Daigeler, candidata agli Academy Award per Mulan dei Walt Disney Studios e agli Emmy Award per Mrs. America, e Pepo Ruiz Dorado.

Il corpo di una donna, un pezzo di stoffa e l’aria
Cristóbal Balenciaga riesce a svelare il mistero dello stilista di Guetaria, il suo segreto. Era nei tessuti che gli permettevano di dare forme mai viste agli abiti, senza dover aggiungere peso. Gli permettevano, soprattutto, di giocare con l’aria, con lo spazio. L’aria tra il corpo e il tessuto era parte del vestito. Il corpo di una donna, un pezzo di stoffa e l’aria. E un paio di cuciture per tenere tutto questo assieme. D’altra parte, lo diceva proprio Coco Chanel. “Balenciaga è l’ultimo vero couturier, tutti noi siamo solo semplici stilisti”.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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