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Wonder Woman. Dagli anni quaranta a oggi, è sempre girl power

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Il Girl Power è una realtà. Lo era meno negli anni Quaranta, durante la Seconda Guerra Mondiale, in quello che era ancora a men’s men’s world, un mondo di uomini. Ma è in quel mondo, esattamente nel 1941, che nasce Wonder Woman, da un’idea di William Moulton Marston, che volle creare un supereroe al femminile proprio per dare un modello alle donne, per far sì che avessero un simbolo in cui riconoscersi, un’icona in cui rivedere i propri valori e le proprie idee. Wonder Woman nasce così come un eroe con tutta la forza di Superman e il fascino di una donna capace, oltre che bellissima. A completare il tutto un’uniforme molto succinta e i colori della bandiera americana, e il gioco è fatto. Wonder Woman diventa immediatamente un’icona, un punto di riferimento per le donne. Non a caso sono gli anni in cui le donne iniziavano a lavorare duramente al posto degli uomini impegnati nella guerra: è del 1943, infatti, la famosa campagna “We Can Do It!” della Westinghouse Electric, che aveva lo scopo di esortare le donne assunte in fabbrica a lavorare più duramente. Insomma, il mondo stava cambiando, il ruolo delle donne stava (faticosamente) cambiando. E Wonder Woman era lì a testimoniare tutto questo. Da 75 anni l’eroina della DC Comics è un simbolo globale di forza e uguaglianza.

Una forza paragonabile a quella di Superman. Una velocità simile a quella dell’uomo d’acciaio. Un fisico resistente al dolore e alle ferite. E poi, armi strategiche. Come il lazo d’oro, che costringe le persone a dire la verità, dei bracciali in grado di respingere qualsiasi cosa, e una tiara in grado di darle poteri telepatici. Wonder Woman è nota per tutte queste cose. Ma anche per la sua intelligenze e saggezza. E per la sua grazia. Per chi è cresciuto negli anni Settanta e Ottanta, Wonder Woman è soprattutto Lynda Carter, la bellissima attrice americana (semifinalista a Miss Mondo) che la impersonava nella famosa serie televisiva (andata in onda in Usa dal ’74 al ’79 e da noi anche negli anni successivi): occhi azzurri, capelli neri vaporosi, tuta dai colori sgargianti. La seconda Wonder Woman in carne ed ossa è poco nota, ed è durata poco: si tratta di Adrienne Palicki, bellezza più convenzionale, un passato in serie interessanti come Friday Night Lights, diventata la supereroina per eccellenza solo in un pilota di una serie tv del 2011, che poi è stata abbandonata.

Wonder Woman arriva, finalmente, sul grande schermo nel film di Patty Jenkins (Monster), con le fattezze della splendida attrice israeliana Gal Gadot. Una scelta terribilmente azzeccata, tanto da far pensare che sia sempre stata l’unica Wonder Woman possibile. Anche lei ha un passato da miss, ma anche uno da soldatessa (in Israele è la norma), e da insegnante di combattimento. Cose che non guastano, se si vuole impersonare un’eroina. Ma quel che colpisce, guardando la sua nuova Wonder Woman, è l’assoluta armonia del suo volto e del suo corpo. Gal ha un fisico felino, tonico, ma senza essere muscoloso come quelle eroine d’azione che siamo abituati a vedere sul grande schermo. Se ci pensate, è assolutamente normale: le altre donne diventano eroine d’azione, allenandosi e preparandosi; Wonder Woman è un’eroina, lo è da sempre, essendo un’amazzone, cioè una creatura fatta della stessa materia di cui sono fatti gli dei. Gal Gadot si muove con l’eleganza di una danzatrice nelle scene d’azione. Il suo volto fiero e sensuale, occhi neri profondissimi, la bocca carnosa e florida come un frutto esotico, è perfetto per un personaggio che è una guerriera, ma anche una bambina. Diana, nel film che è un’origin story, è al suo primo viaggio nel nostro mondo, dopo una vita passata sulla sua isola. Da un lato è una guerriera nata, dall’altro una ragazzina alla prime armi. La nuova Wonder Woman è un particolarissimo mix di forza e bellezza, saggezza e ingenuità, determinazione e innocenza, risolutezza e candore. Un cerbiatto. Così bella che viene voglia di proteggerla. E invece è lei a proteggere noi, come nella scena in cui l’eroe maschile, lo Steve Trevor di Chris Pine, prova a mettere il suo corpo davanti a lei, e lei gli dice di farsi da parte.

Un modello per tutte le donne. Che piace anche agli uomini. Per questo Wonder Woman è un’icona universale. Il suo ideatore William Moulton Marston l’aveva fatta nascere durante la Seconda Guerra Mondiale, ma il film è ambientato nel 1918, e tocca un luogo chiave come Londra, per inserire Wonder Woman nel mondo delle suffragette, farla vivere in un contesto in cui le donne non avevano ancora diritti e ruoli degni di nota. Oggi le cose sono cambiate. Ma forse non abbastanza. Forse c’è ancora bisogno di Wonder Woman.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

 

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Notte degli Oscar – Il cinema, piano dopo piano

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L’omaggio di TK Elevator Italia in occasione dell’evento di assegnazione delle statuette d’oro

Li abbiamo visti chiudersi tante volte troppo in fretta, proprio quando i protagonisti ne avrebbero avuto immediato bisogno, scendere troppo rapidamente, oppure bloccarsi, dando inizio a scene impreviste e, in alcuni casi, imprevedibili. Stiamo parlando degli ascensori, i sistemi di mobilità più usati al mondo, che sono stati protagonisti di tante scene cult al cinema, spesso veri e propri espedienti narrativi utilizzati per favorire un certo sviluppo della trama.

Un “luogo” a cui spesso non facciamo caso, sebbene ci passiamo, in media ogni anno, 16 ore della nostra vita, ma che, se ci fermiamo a riflettere, ci fa venire sicuramente in mente una scena cult di qualche film.

In occasione degli Oscar, TK Elevator Italia vuole celebrare il più famoso premio cinematografico selezionando alcune scene di film candidati agli Oscar nel corso dei decenni ambientate in ascensore, che hanno raccontato alcuni aspetti e l’evoluzione di questo sistema di mobilità.

A partire da uno dei modelli più antichi, quelli dotati di fune: come l’ascensore utilizzato in Batman begins (il primo della trilogia del regista Christopher Nolan), azionato con una manopola, che porta in salvo Bruce Wayne e il maggiordomo Arthur, i quali riescono a fuggire appena in tempo dalla villa che sta andando a fuoco dopo l’attacco di Ra’s al Ghul, intenzionato a distruggere Gotham. Una scena che racconta la caduta metaforica del protagonista, vivo grazie all’intervento del maggiordomo, ma anche il rapporto speciale tra i due: “Perché cadiamo signore? Per imparare a rimetterci in piedi.”, afferma il vecchio Arthur.

Un modello, quello degli ascensori a fune che risale al 1852 e da oltre 170 anni è il sistema di trazione più diffuso e utilizzato, ma che solo in tempi recenti è stato reingegnerizzato e reso ancora più sicuro ed efficiente con la trazione a cinghia.

Anche in Grand Budapest Hotel, diretto da Wes Anderson e vincitore di 4 premi Oscar, l’atmosfera retrò dell’opera ha uno dei suoi fulcri narrativi proprio nell’ascensore rosso e d

otato di addetto, quel “Lobby boy” che diventa il confidente di Monsieur Gustave H, un po’ come succedeva anche in Pretty woman, film per il quale Julia Roberts ricevette la candidatura come migliore attrice protagonista.

Questa figura professionale, che era molto comune trovare sui primi ascensori manuali, poiché era necessario attivare la leva di manovra per portare il sistema al piano desiderato, oggi rimane solo in pochi luoghi, come hotel di lusso, anche se si tratta solo di un servizio aggiuntivo “di cortesia”, in quanto i sistemi oggi utilizzati, grazie all’automazione, non necessitano obbligatoriamente di questa presenza.

Proprio grazie all’automazione e ai progressi tecnologici, in tempi più recenti sono nati anche sistemi innovativi che, grazie all’intelligenza artificiale, permettono all’utente di selezionare il piano prima di accedere all’ascensore attraverso un totem (il cosiddetto destination dispatch), e applicazioni che permettono di chiamare l’ascensore al proprio piano. Una rivoluzione tecnologica ma anche sociale, che permette di risparmiare tempo e, a volte, anche di evitare interazioni con altre persone per sapere dove si stanno dirigendo. Una situazione non possibile negli anni ’80, all’epoca di un altro film da Oscar e assolutamente iconico come Ghostbusters, nella scena in cui un anziano signore si ritrova ad attendere l’ascensore insieme ai tre protagonisti in assetto da acchiappafantasmi, ma decide di aspettare il successivo per non salire con quelli che crede siano disinfestatori.

E come non pensare alla scena di Blade Runner, ambientato in un futuristico 2019, in cui Rick Deckard (Harrison Ford) sale al 97 piano per arrivare al proprio appartamento e viene sorpreso da Rachael, che vuole capire se è un’umana o una replicante. Un ascensore sicuramente particolare dal punto di vista tecnico, con un tastierino simile a quello del telefono (ha cifre singole e si può comporre il numero del piano desiderato) e dotato di riconoscimento vocale, ma che ha anche un’altra particolarità, che riguarda la velocità di ascesa. Si può stimare che per fare 97 piani in circa 20 secondi, l’ascensore si muova a circa 75 km/h, ovvero più rapidamente dell’attuale ascensore più veloce al mondo, installato in Cina, che raggiunge i 73 km/h.

Anche il nostro Paese può contare su un impianto ascensoristico particolarmente rapido ed è quello di TK Elevator Italia che si trova a Milano, nel palazzo di Regione Lombardia: potrebbe viaggiare a 10 metri al secondo (circa 40 km/h) ma per garantire maggior comfort ai passeggeri la velocità impostata è ridotta a 8 metri al secondo (circa 30 km/h).

Non è stato invece un ammodernamento tecnologico degli ascensori, ma un’innovazione introdotta nelle cabine per il comfort dei passeggeri, a rendere più leggera una scena di dolore in È stata la mano di Dio, candidato agli Oscar come miglior film straniero. Marriettello (Lino Musella) disegna, infatti, un disegnino osceno sullo specchio dell’ascensore per risollevare in qualche modo Maria (Teresa Saponangelo), che piange nella cabina per il tradimento del marito Saverio (Toni Servillo).

L’introduzione degli specchi negli ascensori ha preso il via alla fine del XIX secolo, essenzialmente per due motivi: per dare l’impressione che lo spazio della cabina sia più ampio e per permettere ai passeggeri di riuscire a vedere cosa avviene nell’ambiente attorno a sé. Un elemento che a uno sguardo meno attento può sembrare solo decorativo, ma che ha invece una grande importanza in termini di accessibilità: permette infatti a chi si muove in carrozzina, ad esempio, di entrare ed uscire con maggiore sicurezza e facilità, soprattutto negli ascensori dove sono già presenti altri passeggeri.

“Accessorio” che, invece, caratterizzava gli ascensori di un tempo ed oggi non esiste più in Italia era il pulsante di “stop”, abolito per legge nel 1999 per motivi di sicurezza: questi tasti potevano essere facilmente abusati o utilizzati in modo non sicuro da parte dei passeggeri, causando disagi o mettendo in pericolo gli altri utenti. Proprio lo stesso anno, però, il bottone è stato utilizzato come espediente narrativo in Essere John Malkovich, altro film candidato a tre premi Oscar, con una sceneggiatura dai tratti surreali, come quello di immaginare un ufficio al settimo piano e mezzo. Raggiungibile ovviamente tramite ascensore, con l’aiuto del pulsante stop e di un piede di porco.

Proprio per garantire maggiore sicurezza, molti ascensori moderni hanno introdotto sistemi innovativi, come videochiamate di assistenza o sensori ottici per monitorare costantemente l’ascensore e rispondere prontamente a eventuali situazioni di emergenza.

Surreale, ma più che altro futuristico è, infine, uno dei più famosi ascensori della storia cinematografica e non solo: parliamo del Wonka ascensore, che ha la particolarità di muoversi in ogni direzione ed è ormai nell’immaginario di tutti. Un’idea, nata negli anni ’60 dalla fantasia di Roald Dahl e trasportato nella pellicola Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, candidata agli Oscar nel 1971, che oggi è però diventata realtà con MULTI, l’ascensore presentato da TKE nel 2017, in grado di muoversi sia in verticale che in orizzontale. Ciò è reso possibile grazie a un sistema rivoluzionario di cabine senza funi che si spostano con la trazione magnetica: una vera rivoluzione nel concetto di mobilità verticale. Per il “su e fuori”, invece, c’è ancora da lavorare…

Perché a meno di non essere Barbie, che può planare dal tetto direttamente alla macchina, come mostrato nel successo al botteghino dello scorso anno e in corsa agli Oscar di quest’anno con ben otto nomination, per ora, e sicuramente per il futuro più prossimo, l’ascensore è il miglior mezzo per andare su e giù, e in qualche caso anche di qua e di là.

Batman Begins (2005, Warner Bros.) – Diretto da Christopher Nolan, ha ricevuto una nomination agli Oscar 2006 per la migliore fotografia.

Gran Budapest Hotel (2014, 20th Century Fox) – Diretto da Wes Anderson, agli Oscar 2015 ha ricevuto 4 premi: miglior trucco e acconciatura; migliore colonna sonora originale; migliore scenografia; migliori costumi.

Pretty woman (1990, Warnes Bros.) – Diretto da Garry Marshall, ha ricevuto una nomination agli Oscar 1991 per la migliore attrice protagonista.

Ghostbuster (1984, Columbia Pictures) – Diretto da Ivan Reitman, ha ricevuto due nomination agli Oscar del 1985: migliori effetti speciali e miglior canzone.

Blade Runner (1982, Warner Bros.) – Diretto da Ridley Scott, ha ricevuto due nomination agli Oscar del 1983: migliori effetti speciali e migliore scenografia.

È stata la mano di Dio (2021, The Apartment Pictures) – Diretto da Paolo Sorrentino, ha ricevuto una nomination agli Oscar 2022 per il migliore film straniero.

Essere John Malkovich (1999, Universal Pictures) – Diretto da Spike Jonze, ha ricevuto tre nomination agli Oscar del 2000: miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior attrice non protagonista.

Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (1971, Paramount Pictures) – Diretto da Mel Stuart, ha ricevuto una nomination agli Oscar 1972 per migliore colonna sonora.

Barbie (2023, Warner Bros.) – Diretto da Greta Gerwig, ha ricevuto otto candidature agli Oscar di quest’anno: miglior film; miglior attore non protagonista; miglior attrice non protagonista, miglior sceneggiatura non originale; miglior scenografia; migliori costumi; 2 brani candidati per la miglior canzone originale.

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Dune – Parte Due: Dennis Villeneuve, cinema che arriva da un’altra epoca

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Tuo padre governava in un modo che seguiva le regole del cuore. Ma il cuore non è fatto per governare”. È una frase che sentiamo dire alla fine di Dune – Parte Due di Denis Villeneuve, il secondo capitolo della saga ispirata al romanzo Dune di Frank Herbert e seguito del film Dune, vincitore nel 2021 di sei Premi Oscar, in uscita al cinema il 29 febbraio. Come si può capire da queste parole, Dune – Parte Due assume toni ancora più intensi, tragici, shakespeariani nel raccontare la lotta per il potere delle casate degli Atreides e degli Harkonnen, tra trame di palazzo ed epiche battaglie, tra la ragion di stato e le ragioni del cuore.  Dune – Parte Due riesce ad andare ancora oltre il primo film, a stupire visivamente e a ipnotizzare con il suo racconto, creando una nuova epica cinematografica che deve molto ad altre storie ma che trova una sua via, uno suo stile unico. È il primo grande film di questo 2024, quello con cui tutti dovranno fare i conti, al box office e alla prossima stagione dei premi, quello di cui si parlerà per i prossimi anni, fino a quando si chiuderà la trilogia con il terzo film.

La scelta tra l’amore e il destino dell’universo

Paul Atreides (Timothée Chalamet) si unisce a Chani (Zendaya) e ai Fremen, gli abitanti del pianeta Arrakis sul sentiero della vendetta contro gli Harkonnen, i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte alla scelta tra l’amore della sua vita e il destino dell’universo conosciuto, Paul intraprende una missione per impedire un terribile futuro che solo lui è in grado di prevedere.

Austin Butler, un essere proteiforme e belluino

A prima vista, Dune – Parte 2 è uno di quei film che colpisce già solo a leggere il cast clamoroso. Come scrivevamo in occasione del primo Dune, tutte le star del film brillano di luce propria e, allo stesso tempo, scompaiono nei loro personaggi, fondendo i loro volti e i loro corpi in un unico corpo attoriale e narrativo. Nel cast, accanto Timothée Chalamet e Zendaya, ci sono Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Florence Pugh, Dave Bautista, Christopher Walken, Léa Seydoux e Souheila Yacoub. E ancora Stellan Skarsgård, Charlotte Rampling e Javier Bardem. Tutti volti indelebili. Ma a sconvolgere è soprattutto Austin Butler, che avevamo conosciuto sotto il ciuffo impomatato di Elvis, che qui è Feyd-Rautha Harkonnen, il ruolo che nel film di David Lynch era stato di Sting, un essere proteiforme e belluino, folle e assetato di morte, il corpo completamente glabro e il cranio calvo e rilucente.

Dune è il racconto dei racconti

Dune è il racconto dei racconti, racchiude decine di altre storie ma riscrive una storia nuova. C’è molto di Star Wars in Dune perché, come saprete, proprio il romanzo di Herbert è stata una grande ispirazione per George Lucas nel momento di creare quella famosa galassia lontana lontana. Paul Atreides, l’Eletto, il Profeta, è in qualche modo simile allo Jedi, a Luke Skywalker, un giovane che, attraverso un percorso di crescita, acquisisce una consapevolezza di sé e dei propri poteri. Ma se Star Wars deve molto a Dune, il romanzo di Herbert a sua volte deve molto alle Sacre Scritture. Paul Atreides, il protagonista, in fondo fa il percorso di Gesù. Come lui non viene riconosciuto subito come Messia, e la sua umiltà non lo fa subito imporre come tale. Come lui, che nel deserto era tentato dal Diavolo, tra le dune sabbiose del sud del pianeta Arrakis viene tentato dagli spiriti del Deserto. Figura cristologica per eccellenza (come lo sono tutti gli eletti del cinema, da Luke Skywalker al Neo di Matrix) Paul Atreides poi prende una sua via. La svolta che avviene verso la fine del film ne fa qualcosa di molto diverso, un leader carismatico ma anche violento, legato a un ruolo che gli impone scelte anche dure. Proprio come una figura shakespeariana.

Paul e Chani come Romeo e Giulietta

Ma c’è anche altro. Ci sono anche molti aspetti di altre religioni, come quella musulmana, in molte scene legate ai Fremen, e al loro modo di pregare e di vivere. In questo senso, i Fremen vengono rappresentati – sia per gli attori che li interpretano, sia per i loro modi di vivere – come i nostri abitanti di continenti come l’Africa o l’Asia, in particolare il Medio Oriente. E in quella loro voglia di ribellione e rivalsa contro i potenti della galassia, bianchi, si sente quasi il senso di un ribaltamento dell’attuale ordine mondiale, un voler compensare il colonialismo e i danni che l’occidente ha fatto al resto del mondo. Ma è una chiave di lettura ulteriore a una storia ben precisa. Che è anche una storia d’amore. Come non vedere, infatti, in quella scena di Chani chinata su Paul, che sembra in uno stato di morte, una celebre scena di Romeo e Giulietta? O ancora, nella storia di un uomo che arriva da fuori, e per amore sposa un intero popolo e cambia nome, non leggere quella che è la trama i Avatar?

Quell’arena enorme, infinita, interminabile

Una storia che già di per sé è articolata e intensa, carica di personaggi carismatici, è resa ancora più epica dalla costruzione incredibile dell’universo di Dune che ne fa Denis Villeneuve. Le scene indelebili sono tante, ma prendiamo su tutte quella dell’ingresso in scena di Feyd-Rautha Harkonnen, psicotico erede della famiglia rivale degli Atreides. In una sequenza virata in un bianco e nero carico di luce, ci troviamo in un’arena da gladiatori enorme, infinita, interminabile.

Spazi sterminati e volti indelebili

Ed è proprio questa la cifra di Dune, e di quella che è oggi la carriera di Denis Villeneuve. Da un lato punta al senso della meraviglia, dello spazio sterminato, della magniloquenza degli ambienti. Quell’immaginazione che in tante trasposizioni da libro a film va perduta con Villeneuve non è più un problema: con lui non ci sono limiti. Dall’altro lato, il regista canadese riesce a illuminare in modo speciale il viso dei protagonisti, a far uscire prepotentemente la luce degli occhi, che brillano come perle incastonate in quelli che sembrano dei volti scolpiti nella pietra, o dipinti su tela.

Cinema che viene dal passato, o probabilmente dal futuro

Come avevamo scritto in occasione della prima parte di Dune, si tratta di un blockbuster d’autore, una definizione che sembra un ossimoro ma che con Denis Villeneuve non lo è. Quella di Dune è una saga cinematografica diversa da tutte le altre, che si tiene lontana dal pop, che rifugge il fantasy e i colori troppo accesi per dei toni caldi e uniformi, ma carichi di sfumature. Dune ha un suo ritmo, un suo stile di racconto che non è parossistico come il cinema d’azione di oggi. Ma è solenne, epico, ipnotico. Guarda in qualche modo alla prima trilogia de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson, che ricorda soprattutto per la grandiosità delle battaglie e delle scene d’insieme. Ma sembra guardare anche a certi kolossal del passato, a Cecil B. De Mille. Dune non è cinema che appartiene al nostro oggi. È cinema che viene dal passato, o probabilmente dal futuro. È fuori da ogni tempo. È cinema di un’altra epoca.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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I tre moschettieri: Milady: Eva Green è la dark lady in una storia d’amore e morte

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Siamo assassini D’Artagnan, che vi piaccia o no, laddove c’è la morte ci siamo noi”. È una sensuale e perduta Eva Green a parlare, rivolgendosi all’eroe creato da Alexandre Dumas, nel film I tre moschettieri: Milady, sequel de I tre moschettieri: D’Artagnan, in uscita al cinema il 14 febbraio. Eva Green è Milady, personaggio misterioso che ci ha sempre affascinato quando, da ragazzi, leggevamo il romanzo di Alexandre Dumas. In questa frase c’è una rilettura del mito di D’Artagnan: visto da sempre come eroe senza macchia e senza paura, qui viene visto anche come un assassino: in fondo il suo mestiere è uccidere. È quello che è capitato, di recente, anche nella saga di James Bond, quella dei film con Daniel Craig, in cui l’agente segreto veniva definito proprio questo: un “assassino”, un portatore di morte. Nel primo film della saga di Bond con Daniel Craig la dark lady era proprio Eva Green. E allora tutto torna.

I tre moschettieri: Milady, girato insieme a I tre moschettieri: D’Artagnan, è di fatto il secondo tempo di quel film. E completa, a suo modo, la storia del primo romanzo di Dumas, I tre moschettieri. In questa seconda parte, dopo che Constance viene rapita sotto gli occhi di D’Artagnan, in una frenetica ricerca per salvarla, il giovane moschettiere è costretto a unire le sue forze con quelle della misteriosa Milady de Winter. Mentre il Re è in balia del cardinale Richelieu, D’Artagnan e i Moschettieri sono l’ultimo baluardo prima del caos. Ma, con la Francia che rischia di essere messa a ferro e fuoco, il destino li porterà davanti a una scelta: sacrificheranno coloro che amano per portare a termine la loro missione?

Eva Green è l’attrice perfetta per dare un corpo e un volto, e insieme ad essi un’anima nera, alla misteriosa Milady. Che sia l’ambigua e fragile Vesper Lind, l’unica donna in grado di ferire Bond, di Casino Royale, o la velenosa e manipolatrice Ava Lord di Sin City 2, Eva Green in questi anni sul grande schermo ha sempre camminato elegantemente su quella linea sottile che separa – o unisce – eros e thanatos, amore e morte. Bellissima, sensuale, seducente, inquietante, pericolosa, Eva Green aveva evidentemente questo ruolo scritto nel suo destino. E ne I tre moschettieri: Milady, la seduzione non si fa attendere. Dopo un quarto d’ora, sola in una grotta con D’Artagnan, rimane con indosso un corsetto e si avvicina in modo inequivocabile a lui. “Abbandonatevi al demonio” sono le sue parole. Il gioco di attrazione e repulsione continua ancora, e non solo con D’Artagnan. E, come l’Artemisia di 300 – L’alba di un impero, anche qui passa dal combattimento al sesso come se fossero due lati della stessa medaglia.

Ma Eva Green è solo la punta di diamante di un dream team del cinema francese. Vincent Cassel è Athos, Romain Duris è Aramis e Pio Marmaï è Porthos. D’Artagnan è interpretato dal giovane François Civil.  Sono tutti perfettamente in parte, tutti credibili. A stupirci, ogni volta che lo vediamo sullo schermo, è Romain Duris, che avevamo conosciuto come timido e ingenuo protagonista del film francese L’appartamento spagnolo, quando ci sembrava un giovane Carlo D’Apporto. Cresciuto, invecchiato, sporcato il suo volto con la barba e le rughe, ha aggiunto diversi colori alla sua tavolozza d’attore. Così, proprio come il vino, invecchiando sembra migliorare anche Vincent Cassel, attore carismatico e poliedrico, che qui tocca altri tasti rispetto ai quali siamo abituati, con un’interpretazione contenuta, matura, che lavora di sottrazione. Ma non è finita qui: Louis Garrel è il Re Luigi XIII, Vicky Krieps è Anne d’Autriche, e Ivan Franek è Ardenza.

I tre moschettieri: Milady è questo, un cast stellare al servizio di uno di quei vecchi film di cappa e spada che un tempo erano diffusi e oggi sembra che non si facciano più. Sembra, appunto. Se il genere è meno diffuso di un tempo, in realtà la storia de I tre moschettieri di Alexandre Dumas è tornata più volte alla ribalta. Se i personaggi di Dumas sono vissuti in decine e decine di film, dal 1909, negli ultimi 25 anni abbiamo visto i moschettieri parecchie volte. Ricordiamo, tra gli altri, La maschera di ferro, liberamente ispirato al romanzo Il visconte di Bragelonne, il terzo libro di Alexandre Dumas sui moschettieri, che vedeva un giovane Leonardo DiCaprio nel ruolo del Re Luigi XIV. E poi I tre moschettieri, la versione ipercinetica, girata da Paul W. S. Anderson con la sua musa Milla Jovovic nei panni di Milady. E anche la versione decadente e picaresca del nostro Giovanni Veronesi, in ben due film, Moschettieri del re – La penultima missione eTutti per 1 – 1 per tutti, con i moschettieri interpretati dai nostri migliori attori. Ora l’eredità di Dumas torna dov’era partita, dalla Francia. È una visione fedele ai vecchi film, almeno a come ce li ricordiamo: solo un po’ più viscerale, violenta, realistica. Una storia dove l’amore è protagonista. Ed è sicuramente un film spettacolare.

Il regista, Martin Bourboulon, ha spiegato di aver semplificato la trama per non confondere il pubblico. Se azione ed emozioni funzionano, oltre ad aver semplificato la trama, però, Bourboulon ha anche cambiato il finale, o almeno parecchi snodi di esso. Così, se in qualche modo questo secondo film dovrebbe aver portato a compimento la storia del romanzo di Dumas, il finale aperto apre le porte a un ulteriore sequel. Che, a questo punto, prenderebbe un’ulteriore nuova direzione spostandosi ulteriormente dal romanzo di Dumas. E allora dipende se si vuole stare al gioco e godersi lo spettacolo, o storcere il naso di fronte alle infedeltà rispetto al romanzo. La scelta sta a voi.

“Abbandonatevi al demonio” dice la Milady di Eva Green. Demonio sì, eppure, per stessa ammissione dell’attrice, Milady non è mai stata così umana come in questo film. Lo è ancora di più rispetto al romanzo, dove di fatto è un personaggio monodimensionale. E in qualche modo potremmo dire che questa Milady rientra in un nuovo modo di intendere i personaggi femminili. La sua storia sta tutta in quella scena in cui è agli arresti e si confida con Constance. “Gli uomini. Da che sono una donna le loro mani mi hanno presa, sporcata, tradita. Ma non mi daranno la morte. La mia vita è stata loro. La mia morte spetta a me”. Ancora una volta sono gli uomini. Pensateci quando vedrete questo film.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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