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Il Permesso – 48 ore fuori. Un film di Claudio Amendola

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Seconda appuntamento alla regia per Claudio Amendola che affronta una prova ancor più grande.
Il regista/attore si cala completamente in questa doppia veste, affermando che “Il permesso – 48 ore fuori” era la storia giusta.
I personaggi e la trama sono tipici di un genere di cinema che ha avuto la fortuna di interpretare da attore in numerosi film e che in un certo senso lo rappresenta, ma forse la cosa che più lo ha convinto è il comune denominatore che spinge i personaggi, perché, nonostante sia una storia dura e anche violenta, il sentimento che li muove è sempre l’amore; per un figlio, per una donna, e l’amore da trovare.
Ad affiancarlo in questa nuova avventura: Luca Argentero, Giacomo Ferrara, Valentina Bellé, Antonio Iuorio, Valentina Sperlì e molti altri.
Distribuito da Eagle Picture, al cinema dal 30 marzo 2017.

Sinossi
A Luigi, Donato, Angelo e Rossana sono state concesse 48 ore di permesso fuori dal carcere di Civitavecchia. Per motivi differenti si trovano in galera, dove devono scontare il loro debito con la giustizia. Ma adesso sono fuori, e devono decidere in che modo spendere il poco tempo che gli è stato concesso. Vendetta, redenzione, riscatto, amore. Una volta usciti ognuno di loro dovrà fare i conti con il mondo che è cambiato mentre erano dentro.
Al suo secondo esperimento dietro la macchina da presa, Claudio Amendola dirige un cast poliedrico, su cui spicca un’incredibile performance di Luca Argentero, in un film, prodotto da Claudio Bonivento, nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo, già autore di Suburra e Romanzo Criminale, con la collaborazione dello stesso regista e di Roberto Jannone.

Conversazione con Claudio Amendola
Come si è sviluppato questo progetto?
È nato grazie a Claudio Bonivento, un produttore illuminato con cui collaboro da 30 anni, che si è innamorato di un soggetto scritto da Giancarlo De Cataldo, anche autore, con me e Roberto Jannone, della sceneggiatura. Quando Claudio mi ha proposto la sua storia è stato amore a prima vista. L’impatto è stato fortissimo, cercavo da tempo un racconto che fosse giusto per il mio secondo film da regista, dopo La mossa del pinguino, ma mi sono mosso con i piedi di piombo fino a quando questo soggetto ha centrato esattamente quello che volevo: ho iniziato così a lavorare a un copione che col tempo è diventato sempre più simile a me e al cinema che mi piace vedere da spettatore. Gli sceneggiatori ed io ne abbiamo realizzato varie stesure, fino ad arrivare a quella definitiva che abbiamo portato in scena. In seguito abbiamo iniziato la scelta degli attori, che si è rivelata decisiva, a partire dall’idea di stravolgere l’immagine abituale di Luca Argentero, rendendolo piuttosto irriconoscibile: per interpretare il ruolo di un pugile sconfitto dalla vita, Luca ha perso otto chili di peso e ne ha acquistati sei di muscoli grazie a una lunga, accurata e super professionale preparazione fisica. Il suo personaggio, Donato, è un uomo ferito dentro, dolente, buio, oscuro, con un passato e un presente forte e duro e Luca ha aderito con entusiasmo alla difficile sfida che lo aspettava. Penso in particolare ai momenti in cui si ritrova coinvolto in un combattimento clandestino di boxe senza esclusione di colpi, in alcune sequenze molto forti, di grande impatto. Per quello che mi riguarda, la scelta di recitare nel film, oltre a dirigerlo, è dipesa soprattutto dal fatto che mi sarebbe dispiaciuto regalare a un altro attore il bellissimo ruolo che ho deciso di interpretare, quello di Luigi, un uomo stanco, spento e provato, che nel corso della vicenda ha il percorso di un vinto: è in galera da 17 anni, esce grazie a un permesso per 48 ore e si ritrova costretto per amore di suo figlio a tornare sui suoi passi con difficoltà e dolore. Insomma, per questo secondo film da regista ho potuto confrontarmi con un’altra bella storia che mi piace definire “western” perché ha come protagonisti due eroi solitari che vanno fieramente incontro al loro destino.

Che cosa si vedrà in scena?
Raccontiamo i due giorni di libera uscita di quattro detenuti di età diverse, che non si conoscono tra loro e che chiedono e ottengono un permesso per uscire dal carcere in cui sono rinchiusi per vari motivi. Poco a poco scopriremo perché escono e che cosa faranno una volta fuori dal penitenziario. Il mio personaggio, Luigi, per esempio, è spinto dall’urgenza di dover risolvere un serio problema: salvare un figlio 25enne che si è cacciato in guai seri cercando di ripercorrere, senza averne la stoffa, le sue orme nel mondo della malavita. Anche il Donato interpretato da Argentero, nonostante si muova in contesti duri e violenti, viene a sua volta spinto ad agire dall’amore, perché deve salvare sua moglie che è stata costretta a prostituirsi da uomini che facevano parte del suo giro, prima che lui finisse in galera: è in prigione da diversi anni e deve scontarne ancora molti, esce con l’intenzione di salvare la sua donna ma si ritroverà a doverla vendicare. Gli altri due detenuti in libera uscita sono due ragazzi, Rossana e Angelo (Valentina Bellè e Giacomo Ferrara): lei è una rampolla dell’alta società, ribelle fin dall’adolescenza, che, provocando un enorme scandalo, è stata arrestata con dieci chili di cocaina e sta scontando una lunga pena. Rossana è sfinita, non ne può più di quella vita e quando si ritrova provvisoriamente libera è determinata a non tornare più dietro le sbarre, sicura che la ricchezza della sua famiglia la salverà e la proteggerà. È una ragazza spigolosa e scostante, ma nel corso degli avvenimenti si finisce con l’innamorarsene, perché porta con sé anche una grande fragilità che maschera e nasconde come può.
La sua storia e quella dell’altro giovane in libera uscita, Angelo, si intersecano, a differenza di quelle dei detenuti adulti, che si snodano autonomamente: Angelo è stato arrestato in seguito a una rapina e durante la sua prigionia si sta specializzando in “verde ornamentale”, coltivando la speranza, una volta scontata la sua pena, di convincere i suoi amici di scorribande ad allestire una cooperativa e a cominciare una nuova vita normale. Scoprirà in seguito che i suoi complici non vogliono affatto redimersi dalla vita criminale e studiano invece un progetto molto diverso per lui e per i due giorni di libertà che lo aspettano. L’incontro tra i due ragazzi, che rappresentano la parte meno “nera” della vicenda, sarà salvifico per entrambi, ma l’intera sceneggiatura è costruita attraverso un montaggio alternato delle quattro storie principali che rendono il film particolarmente forte, potente e con un grande ritmo.

Diceva che aspirava a realizzare un genere di film che le piace vedere da spettatore, in che senso?
Il permesso – 48 ore fuori è rigorosamente un film di genere, una categoria che nell’ultimo anno è stata finalmente “sdoganata” anche in Italia, ed è un film che mi rispecchia molto, è il cinema che mi piace vedere e che volevo portare in scena. Mi piacciono molto certi film stranieri di questo tipo, quelli americani ma anche quelli francesi, che hanno una tradizione molto forte, e questo mi fa sperare per la diffusione internazionale della nostra storia, che potrebbe essere ambientata in qualsiasi luogo del mondo: le carceri esistono ovunque così come esistono le dinamiche che i personaggi principali del racconto scatenano.

Le piacciono i libri di Giancarlo De Cataldo e le trasposizioni che ne sono state tratte per il cinema e per la fiction tv?
Ho sempre letto le opere di Giancarlo, come Romanzo Criminale, con appassionata voracità e l’anno scorso ho recitato, diretto da Stefano Sollima, nella trasposizione cinematografica del suo libro Suburra. È un tipo di letteratura che apprezzo, mi sono interessato molto e documentato a lungo sulle trame dell’Italia degli ultimi 30/40 anni: penso ai volumi di giornalisti come Giovanni Bianconi e Carlo Bonini, ricchi di coraggioso impegno civile e sociale.

Che cosa l’ha interessata di più del Luigi che interpreta?
Mi è piaciuta molto soprattutto la sua stanchezza di fondo, il suo essersi arreso: in passato era stato un criminale spietato e violento, ma poi il carcere lo ha piegato e lui vorrebbe soltanto scontare la sua pena e trascorrere in pace il resto dei suoi giorni con i pochi amici che gli sono rimasti. È un uomo piuttosto stanco e provato dalla vita, ma viene costretto, suo malgrado, a riprendere le armi.

Come si è ritrovato a recitare con Luca Argentero dopo Noi e la Giulia?
Quando ho proposto il nuovo progetto a Luca, lui è stato molto generoso e si è subito messo in gioco volentieri. Abbiamo condiviso la sensazione che poteva trattarsi di una bella occasione per uscire dai canoni del già visto. Prima di questo nostro nuovo film, Argentero aveva recitato soprattutto in commedie dove appariva bello e figo, invece qui si è completamente stravolto nell’aspetto, dando prova di una grande maturità d’attore: il suo è un personaggio drammatico, molto scuro e violento, si tratta quindi di vesti in cui non lo abbiamo mai visto prima.

Come ha scelto i suoi attori?
Ho notato in Valentina Bellè una particolarità che mi ha incuriosito, è una delle atttrici/rivelazione dell’anno, un’interprete che amo definire “scorretta” (e lo dico nell’accezione migliore del termine). L’ho scelta subito perché è davvero sorprendente per vari motivi: ha girato ultimamente i nuovi film di Francesca Comencini e dei fratelli Taviani, ha recitato in qualche fiction, ha frequentato scuole di recitazione in Italia e all’estero, può contare su solide basi di studio e su una bellezza naturale, è particolare perché a volte è bellissima e altre meno, è una ragazza che ti colpisce e non ti lascia indifferente. Giacomo Ferrara invece era stato l’interprete del personaggio di Spadino nel film Suburra, lo studiavo da tempo. In un primo momento l’avevo scelto per il personaggio di mio figlio ma, andando avanti con i provini per gli altri ruoli, non ero soddisfatto delle scelte fatte fino ad allora e quindi, su consiglio di Claudio Bonivento, abbiamo sottoposto Giacomo a un provino per la parte di Angelo e lui lo ha superato alla grande, dimostrando molta personalità. A quel punto ho ricominciato a cercare l’attore giusto che interpretasse il ruolo di mio figlio e l’ho trovato in Simone Liberati, che in Suburra era il “braccio destro” di Alessandro Borghi. Abbiamo fatto in generale un bel lavoro con la casting Gabriella Giannattasio, trovando interpreti intonati e pertinenti ai ruoli, come Ivan Franek, Antonino Iuorio, Valentina Sperlì, che in scena è la madre di Rossana, e Alessandra Roca che interpreta la moglie di Luigi.

Conversazione con Luca Argentero
Ha capito subito che Il permesso – 48 ore fuori poteva rappresentare per lei una bella opportunità?
Claudio Amendola ed io abbiamo recitato insieme sia sul set del film in cui lui ha esordito alla regia, La mossa del pinguino, sia tre anni fa su quello del noir Cha Cha Cha di Marco Risi, e abbiamo cementato presto un rapporto profondo basato su stima e fiducia reciproche. Mi è sembrato evidente che questa volta lui si sia voluto fidare di me offrendomi un’opportunità importante, e mi ha fatto molto piacere che io gli sia sembrato serio e affidabile nell’ambito di un progetto che fin dal primo momento lui ha vissuto, come è sua abitudine, con enorme passione.

Come ha affrontato questo nuovo ruolo così insolito?
La necessità di un’adeguata preparazione fisica ha reso l’esperienza un gioco bello da praticare, intenso e gratificante, come mi era successo per esempio in occasione di una recente miniserie tv sul pugile Tiberio Mitri o di Cha Cha Cha: la possibilità di lavorare su di sé e sul proprio corpo rappresenta una parte divertentissima del nostro mestiere, mi piace allenarmi, l’idea di entrare in palestra alle 7,30 del mattino e dire a se stessi “lo sto facendo per lavoro” è la conferma del privilegio che ho nel coltivare un mestiere fortunato che mi piace e mi diverte tanto.

Chi è Donato, il personaggio che lei interpreta?
È un tipo piuttosto chiuso e “bloccato”. Forse tra i quattro detenuti che escono per le loro 48 ore di libertà, impegnati a risolvere questioni di amore, di vita personale e di affetti, è quello che non ha lottato minimamente per uscire, non ha mai avuto notizie da nessuno all’esterno del carcere, nemmeno da parte della donna che ama, non sa nulla di lei, sa solo che il gruppo di persone che facevano parte del suo entourage criminale aveva il compito di sorvegliarla. Uscito dalla prigione, Donato apprende che la sua donna si prostituisce, ma deve scoprire come, dove e quando, e allora per cercarla intraprende una sorta di discesa agli inferi.

Come si è preparato al ruolo?
La preparazione è stata incentrata su una dieta rigida e un duro esercizio. Mi sono allenato a Torino con alcuni ragazzi che insegnano Thai Boxe in modo da poter dimostrare in scena di sapermi muovere durante i combattimenti a mani nude, mi sono sottoposto a una lunga dieta – direi però che più che perdere chili li ho “trasformati” – e poi mi sono preparato con Claudio Pacifico che era lo stunt coordinator, sia per le coreografie sia per le scene particolarmente movimentate”.

Che tipo di relazione si è stabilita tra lei e Claudio Amendola durante le riprese?
Un rapporto di fiducia, creatività comune, divertimento ed entusiasmo, sono rimasto sul set soltanto dieci giorni sui quaranta previsti per le riprese ma quando ero presente eravamo tutti sempre molto concentrati. La storia mostra in scena quattro personaggi principali con quattro storie da raccontare. Il mio, Donato, appare in poche scene di transizione, ma ogni sequenza è molto significativa, ogni giorno avevo da girare scene importanti e ho lavorato sempre con entusiasmo e dedizione.

Che cosa l’ha colpita di più di Amendola regista?
Claudio è molto sicuro di sé, non ho mai avuto la sensazione di avere di fronte a me un regista che non sapesse quello che voleva, lui lo sapeva benissimo, era sempre determinato e preciso, ed è riuscito a costruire un bellissimo lavoro di squadra con il direttore della fotografia Maurizio Calvesi e un bel team di persone che gli consentiva di realizzare ogni volta esattamente quello che voleva. Tutte le scene che ho girato erano fondamentali per l’economia del racconto, ma ero molto concentrato soprattutto sulla giornata del match clandestino di pugilato. È stata filmata in un’unica sequenza, mi piaceva molto lavorare con il fisico, ero molto soddisfatto del traguardo raggiunto con gli allenamenti, ma il giorno dopo la fine delle riprese, la possibilità di stapparmi soddisfatto una prima birretta dopo tanto tempo di astinenza ha rappresentato per me un gesto molto liberatorio.

Secondo lei può esserci uno spazio adeguato oggi in Italia per i film di genere come Il permesso – 48 ore fuori?
Non credo che Claudio Amendola abbia scelto di girare questo film grazie al trend positivo che ultimamente il cinema di genere vive in Italia, lo ha fatto solo perché si è imbattuto in una storia che gli piaceva e che voleva raccontare: possono esserci buoni spunti di noir, giallo o fantasy, ma se qualcuno ha una buona storia da portare avanti è sempre il momento giusto. Se si abitua il pubblico a una differenziazione maggiore di proposte, questo può rappresentare uno stimolo notevole.

Lei si sente a suo agio nel recitare in qualsiasi genere di film?
Finora ho interpretato quasi sempre delle commedie. Devo confessare che quando recito in contesti brillanti mi ritrovo alle prese con meccanismi più consolidati e mi sento a casa, ma mi reputo fortunato perché mi viene offerta spesso la possibilità di poter variare, è uno stimolo che permette di scoprire cose di te stesso che non conosci. Ho già recitato in una ventina di film, ma in generale mi sento ancora all’inizio della mia carriera e se proprio dovessi pensare a qualcosa, penserei soprattutto a scegliere bene i prossimi venti. Più si sperimenta e si cambia e più si è preparati a qualsiasi eventualità.

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Conseguenze d’amore: Meg Ryan torna regina della commedia romantica… è sempre lei, ma è cambiata

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Si chiama Conseguenze d’amore, nella sua versione italiana, il nuovo film scritto, diretto e interpretato da Meg Ryan, dall’11 aprile al cinema, con un gioco di parole su una storia che parla di aerei perduti e coincidenze mancate, e conseguenti incontri. What Happens Later è invece il titolo originale del film, e ci dice molto di più. Significa “che cosa accade dopo”, “che cosa accade più tardi”. E il nuovo film di Meg Ryan, per la prima volta in veste di sceneggiatrice e regista oltre che di protagonista, è infatti una tenera e intrigante storia d’amore tra due persone mature, sulla sessantina. Un’età che raramente viene raccontata per quanto riguarda gli innamoramenti, ed è un peccato. Il nuovo film di Meg Ryan ci dice che ci si può innamorare ancora, anche a quell’età. Un’età che porta con sé rimorsi e rimpianti, sogni infranti e treni persi. Ma anche, volendo, una vita ancora tutta da vivere.

Interno, notte. I New Radicals cantano You’re Gonna Get What You Give, hit di fine anni Novanta. Un cartellone fa pubblicità a un film che si chiama Rom Com, preannunciando che ci troviamo in una commedia romantica. Siamo nella sala d’attesa del terminal di un aeroporto, non luogo e limbo per eccellenza. Un uomo e una donna cercano entrambi una presa per ricaricare il loro smartphone. Poi si incontrano, si presentano. Capiamo subito che si conoscono già. Entrambi si chiamano W. Davis. Sì, capiamo ben presto che i due sono stati insieme. Che sono stati innamorati. E che la loro è stata davvero una storia importante. E che non si vedono da 25 anni. E ora?

W. Davis, cioè Wilhelmina, o Willa, è Meg Ryan, la storica reginetta delle commedie romantiche che abbiamo amato sin dal primo giorno. W. Davis, cioè William, alias Bill, è David Duchovny, che invece le commedie romantiche le ha frequentate poco. Lo conosciamo per due iconici ruoli in serie tv, l’enigmatico Fox Mulder di X-Files e il lascivo Hank Moody di Californication. Li ritroviamo dopo che non li avevamo mai immaginati insieme, lei nel suo terreno, lui in un territorio nuovo. Invecchiati, stropicciati, come i loro personaggi: Willa zoppica per un dolore all’anca. Bill soffre d’ansia anticipatoria.

È soprattutto strano rivedere, all’inizio, il volto di Meg Ryan su un grande schermo. Già anni fa era stata criticata per gli interventi di chirurgia estetica sul suo viso. Il tempo ha fatto la sua parte, le rughe sono comparse sul suo volto e la rendono interessante. Ma quelle labbra turgide la rendono qualcosa che sta a metà tra una donna della sua età e una donna più giovane, un ibrido difficile da definire. È una sensazione che dura poco, però. Non appena la bocca si apre in un sorriso dei suoi, inconfondibili, carichi di dolcezza, i dubbi svaniscono. Abbiamo ritrovato Meg Ryan. Per David Duchovny, invece, il tempo sembra non essere affatto passato. Qualche lieve ruga di espressione sulla fronte. Qualche capello bianco che stria le tempie. Abbiamo visto il nuovo film in lingua originale – fatelo anche voi, se potete – e abbiamo notato una cosa. Che questi due attori non li avevamo mai sentiti con le loro voci originali, ma sempre doppiati. E le loro voci, lo scopriamo adesso, sono profonde, sfaccettate, cariche di sfumature, e affascinanti.

Meg Ryan e David Duchovny riescono così, facilmente, a trascinarci dentro la storia. Che prova a rispondere a una domanda non banale. Che cosa accade quando ci si lascia e passano 25 anni? Ci si ricorda tutto o non si ricorda niente? Si ricorda la propria vita a sprazzi, secondo quello che è rimasto impresso. Ma pian piano tutto riaffiora. Si ricorda di aver provato a scrivere canzoni, di essere stati idealisti. “Ascolta i poeti, non ascoltare i politici”. Di aver creduto nei Pearl Jam, nei Pixies e nei Soundgarden più che in qualunque altro. Di aver fatto quel gioco in cui, per conoscere l’altro, ci si scambiava il portafoglio con tutto quello che c’era dentro. Altro che smartphone.

Coincidenze d’amore è un film tutto parlato, sussurrato, recitato. È un film di scrittura, di quelle scritture efficaci, quasi perfette, ma a loro modo sincere. Perché tra le pieghe dei dialoghi c’è della vita, e si sente. È un film su quegli incontri che segnano una vita, su quelle notti che contengono dentro tutte quelle che verranno, una sorta di Prima dell’alba in età matura. È un film con dei tempi recitativi perfetti, con movimenti nello spazio perfetti. Fate caso al fatto che i due, in quel limbo che è il terminal, mantengano le distanze a livello fisico, provando così a mantenere le distanze anche a livello sentimentale. Avvicinarsi, riavvicinarsi, può far male. E allora provano a difendersi l’un l’altro.

A livello di regia, se la direzione degli attori e il loro movimento negli spazi è perfetto, è forse inutile qualche vezzo che Meg Ryan si concede. Come la trovata della voce degli annunci che sembra parlare direttamente a loro e diventare così un “coro” agli eventi che accadono, o alcune immagini del passato che appaiono sui video del terminal, o quel cuore alla fine. Degli elementi magici che non aggiungono molto alla storia e che non sarebbero serviti. Ma è un ornamento inutile, e in fondo innocuo, che non toglie molto all’atmosfera del film.

E così la regina delle commedie romantiche è tornata. Ma è cambiata, e non solo fisicamente. A cambiare sono i suoi personaggi. La sua W. Davis è diversa dalle altre sue eroine, e non potrebbe essere altrimenti, vista l’età. È un personaggio più cinico, più disincantato. Ma ha sempre una sua dolcezza. Finisce con Tom Petty che canta Learning To Fly. “Sto imparando a volare, ma non ho le ali”. Ed è perfetto per raccontare la malinconia della nuova Meg Ryan.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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Priscilla: Graceland è come Versailles, Sofia Coppola ci racconta la giovane moglie di Elvis, regina senza un regno

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I piedi da bambina, con le unghie dipinte di rosso, si muovono su una moquette rosa. Un eyeliner trucca in modo pesante due occhi bellissimi, allungandoli, come si usava negli anni Sessanta. È così che inizia Priscilla, il nuovo film di Sofia Coppola, presentato alla Mostra Internazionale del cinema di Venezia, e in uscita al cinema il 27 marzo. Priscilla è la storia della sposa bambina di Elvis Presley, prodotta dalla stessa Priscilla Beaulieu e tratta dal suo romanzo. È il controcampo di Elvis, il film di Baz Luhrmann sul Re del rock, con la macchina da presa costantemente sulla moglie, e Presley sempre di lato, in secondo piano, forse sminuito anche troppo. Quello che conta è che Priscilla è una nuova storia al femminile di Sofia Coppola, perfettamente in linea con la sua poetica.

Quando l’adolescente Priscilla Beaulieu (Cailee Spaeny) incontra a una festa Elvis Presley (Jacob Elordi), l’uomo, che è già una superstar del rock’n’roll, nel privato le si rivela come qualcuno di completamente diverso: un amore travolgente, un alleato nella solitudine e un amico vulnerabile. Attraverso gli occhi di Priscilla, Sofia Coppola ci racconta il lato nascosto di un grande mito americano, nel lungo corteggiamento e nel matrimonio turbolento con Elvis. Una storia iniziata in una base dell’esercito tedesco e proseguita nella sua tenuta da sogno a Graceland. Una storia fatta di amore, sogni e fama.

“Ti piace Elvis Presley?” “Ovvio, a chi non piace”. Immaginate di essere una ragazzina del liceo, in un paese straniero, in Germania, e di sentirvi chiedere da un impresario se volete venire a una festa a casa di Elvis. Immaginate le emozioni che agiterebbero chiunque. Ed è proprio questo che capita alla giovanissima Priscilla, un prisma di sensazioni che vanno dal timore, al desiderio, alla volontà di non deludere i genitori protettivi che, giustamente, sono preoccupati per una relazione con un uomo più grande, e di tale fama. Per Priscilla sarà un viaggio dentro a un sogno. Un sogno da cui, più volte, si desterà bruscamente.

Non è tutto oro ciò che luccica. E anche Elvis, il Re del rock, visto da vicino non è quell’uomo che appare al pubblico adorante di tutto il mondo. Già quando lo vediamo per la prima volta, alla famosa festa, ha una camicia bianca e un cardigan, ed è molto lontano dagli abiti scintillanti di scena a cui siamo abituati e che ha riportato l’Elvis di Baz Luhrmann. Ma non si tratta solo di questo. Se Elvis è stato una delle voci più belle e potenti della storia della musica, l’uomo che vediamo in Priscilla biascica le parole, parla a monosillabi, non fa altro che dormire stordito da ogni tipo di tranquillante. È un uomo violento. O meglio. È un uomo a cui, da sin da giovane, nessuno ha mai detto di no (tranne che, ovviamente, il colonnello, il suo manager), e che crede di poter fare di ogni persona quello che vuole. Così, per lui, Priscilla non è nemmeno una persona. È il suo giocattolo, la sua bambola, una a cui dire come vestirsi e come portare i capelli. E, quel che è più grave, un gioco da riporre ogni volta che ci si è stancati di giocarci.

Priscilla è un film che vive di contrasti. Il Re del rock e la liceale. L’uomo e la bambina. La differenza di statura tra i due attori, Jacob Elordi e Cailee Spaeny, è notevole. Al cinema, si sa, la cosa si può colmare con diversi trucchi. Eppure Sofia Coppola non fa nulla per nascondere la differenza di altezza tra i due. Quasi che volesse, in quel modo, marcare una distanza incolmabile, un dislivello che nasce dai ruoli, dalla fama, dalla ricchezza. Ma, soprattutto, dal genere.

Sì, la discriminazione di genere è un fattore importante in questo film. Che è il solito film di Sofia Coppola, ma il messaggio destinato al maschilismo tossico stavolta è molto più deciso ed esplicito che in altri film, dove era solo un sottotesto. L’Elvis che vediamo in Priscilla è un uomo violento, maschilista, un uomo che gira con le pistole in tasca e prende ogni decisione per sé e per la propria compagna. Il casting del film non è un caso: per il ruolo di Elvis Sofia Coppola ha scelto Jacob Elordi, che nella serie Euphoria è Nate Jacobs, ragazzo violento e dominante. Porta un po’ di quel personaggio e di quest’aura anche qui, e la cosa è funzionale al messaggio. Un altro momento che ci ha fatto riflettere, è quella scena, a un certo punto del film, in cui tre uomini (Elvis, il padre di Priscilla e un altro), si riuniscono a un tavolo, in salotto, a parlare di Priscilla e della sua relazione con Elvis. È la sua vita, parlano di lei, ma sono solo uomini. E lei, con la madre, è fuori, che aspetta in cucina e non può sentire niente. Cailee Spaeny è un volto perfetto per esprimere la gioventù, l’ingenuità, lo smarrimento. È destinata a diventare la prossima star di Hollyood: sentiremo ancora parlare di lei.

La vita di Elvis, la sua carriera, scorrono lateralmente al film, con il Comeback Special televisivo del 1968 e quell’iconico abito tutto in pelle nera. O la prigione dorata di Las Vegas, con la famosa tuta bianca che appare nel salone di Graceland al momento di una prova costumi prima di iniziare l’avventura. O, ancora, con i numeri nei film con Ann Margret, e le voci su una possibile storia d’amore. Si vede la sua relazione malata con le medicine, che lo avrebbe portato alla morte, un rapporto che inizia quando Elvis è ancora giovane. Ma il ritratto della star, per quanto voglia mostrarne il lato oscuro, ci sembra a volte eccessivo. Elvis è comunque un mito: mostrarlo come un tipo quasi afasico, che si esprime a monosillabi, continuamente intontito forse è ingeneroso.

Sofia Coppola, da canto suo, continua a girare sempre lo stesso film, ogni volta con sfumature diverse. Le sue sono sempre storie di giovani donne chiuse in prigioni dorate. Quella di Sofia Coppola, lo sappiamo, è stata la Hollywood degli anni Ottanta. Che così, in una sorta di transfert verso altri personaggi, è diventata la Versailles di fine Settecento di Marie Antoinette e adesso la Graceland di Priscilla. Priscilla Beaulieu è un’altra Maria Antonietta, una regina senza regno, e senza un vero re al suo fianco. È ancora l’annoiata moglie di un uomo che sembra interessato a tutt’altro. Così i fuochi d’artificio esplodono a Graceland come a Versailles, ma sono un fuoco fatuo, vuoto. Un paesaggio stato d’animo  al contrario di ragazze che, ancora una volta, sono lost in translation, non riescono a comunicare con chi hanno vicino.

di Maurizio Ermisino pert DailyMood.it

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May December: Natalie Portman, Julianne Moore e le vite degli altri

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“Every artist is a cannibal, every poet is a thief”. “Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro”. Così cantavano gli U2 in The Fly. Ed è questo quello che accade, alla fine, in May December, il nuovo film di Todd Haynes con Natalie Portman e Julianne Moore, presentato allo scorso Festival di Cannes e in uscita al cinema il 21 marzo, dopo una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Abbiamo usato queste parole perché il film di Todd Haynes è un moderno mélo, ma soprattutto una riflessione sul lavoro dell’attore e sul suo modo di avvicinarsi a un ruolo, una storia, una persona. In questo senso Natalie Portman è straordinaria e Julianne Moore è il suo perfetto specchio. E viceversa.

Rivivere uno scandalo

Elizabeth (Natalie Portman) è una famosa attrice, ed è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie (Julianne Moore) e Joe (Charles Melton), la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Gracie, già adulta e sposata con figli, aveva avuto una relazione con un dodicenne, e per questo era finita anche in carcere. La cosa sorprendente è che, una volta uscita, Gracie aveva sposato il ragazzo e avuto dei figli con lui. Per prepararsi al suo nuovo ruolo Elizabeth entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi.

Né vergogna, né dubbi, né rimorsi. Ma…

Quello che colpisce Elizabeth, e anche noi, mentre il film procede, è l’estrema tranquillità nella vita di Gracie. È una normalità così cercata, e così ostentata, da risultare costruita. E che fa pensare al fatto che possa nascondere una serie di crepe profonde dietro la facciata lucida e patinata. “Non sembra mostrare alcun senso di vergogna, né dubbi, né rimorsi” dice di lei Elizabeth. Da un lato, la vita di Gracie sembra quella di una donna pacificata. Dall’altro c’è in lei un mistero, un rimosso, un non detto. Un senso di vergogna che è stato chiuso in un cassetto per poter continuare a vivere. Ma quel cassetto sarà aperto?

Natalie Portman, star e detective dell’anima  

Elizabeth, cioè Natalie Portman, in May December, ha un doppio ruolo. Da un lato è l’attrice, la diva, la star. Ma dall’altro è l’investigatrice. Per prepararsi al film, infatti, indaga, e questo fa sì che sia la nostra detective. Il film funziona come un’indagine, un giallo senza delitto e senza colpevoli, in cui cercare però l’anima dei personaggi e la verità dei fatti. Ed Elizabeth è il nostro punto di ingresso nella storia. È il narratore non onnisciente, colei che scopre le cose man mano che la storia va avanti e ce le racconta. Così, come in un romanzo di questo tipo, anche noi le scopriamo insieme a lei, a poco a poco.

Le vite degli altri

Per questo May December è un moderno mélo, come è nelle corde di Todd Haynes, ma è anche una riflessione sul lavoro dell’attore. Il lavoro dell’attore è indagine, è studio, è approfondimento. Ma, allo stesso tempo, è anche immedesimazione, è ingresso nella vita di qualcun altro, è rubare dei pezzi di un’esistenza. Ma quanto è necessario immedesimarsi in un ruolo? Fino a che punto è necessario diventare qualcun altro? Qual è il momento in cui bisogna fermarsi? E così ci chiediamo, man mano che il racconto procede, perché Elizabeth si immedesimi così tanto in Gracie, perché entri così tanto nella sua vita. Lo fa per il suo lavoro o per qualche altra ragione?

Sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo?

A proposito di lavoro dell’attore, May December spiega, come pochi altri film, quello che davvero accade ogni volta che un attore sul set affronta una scena di sesso. È ancora Natalie Portman, nei panni di Elizabeth, a raccontarlo, durante una lezione. Uno studente le chiede che cosa si provi, che cosa accada davvero sul set in quei momenti. E lei lo spiega, con una sincerità rara. All’inizio pensi al fatto che sia come una coreografia, con dei passi e delle mosse da seguire. Ma dopo essere stati ore e ore l’uno accanto all’altra, nudi, ti rendi conto che nasce un feeling, qualcosa che non diresti mai al tuo partner nella vita. E ti fa chiedere: sto provando piacere o sto cercando di nasconderlo? E alla fine ti lasci andare al ritmo.

Natalie Portman e Julianne Moore, intimità allo specchio

A proposito del lavoro dell’attore, dell’immedesimazione, dell’intimità, c’è una scena in particolare che racchiude tutto il senso di May December. È quella in cui Elizabeth e Gracie, Natalie e Julianne, si trovano l’una di fronte all’altra, allo specchio, al trucco. Elizabeth cerca di diventare Gracie, e lei la aiuta. Entrambe fissano prima lo specchio e guardano in macchina, guardano verso di noi. Poi si girano l’una verso l’altra, di fonte, e Gracie trucca Elizabeth come se truccasse se stessa, le acconcia i capelli come li porta lei. E così, guardando la sua emula, è come se si guardasse a sua volta allo specchio, come se parlasse con se stessa. E si confida, si apre come non aveva ancora fatto prima.

Un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi

Il film è una sfida di bellezza e di bravura, un Eva contro Eva con due star del cinema di oggi. Julianne Moore è in scena con i suoi colori tipici. I proverbiali capelli rossi qui sono schiariti e tendono al biondo. La pelle è chiarissima e lattiginosa, e le dona un’aria quasi nobile, insieme a un’aura di purezza, quella che Gracie vuole mantenere nella sua vita. Le labbra sottili sono fisse in un lieve e costante sorriso arcaico e un po’ forzato. I suoi occhi si stringono quando sorride. Ma quando il suo volto si scioglie finalmente in un pianto, con il volto arrossato, quando la torre d’avorio crolla, Julianne Moore è credibilissima, reale, palpabile.

Natalie Portman, gli occhi della curiosità

Natalie Portman ha la sua aura inconfondibile, la pelle diafana, il fisco tonico e minuto. A quarantadue anni è ancora un’eterna ragazzina, è ancora la Mathilda di Leon, è davvero cambiata pochissimo. Entra in scena con un leggerissimo abito di cotone bordeaux, i grandi occhiali da sole neri e un cappello di paglia a tesa larga. “Pulita, fresca”, la definiscono, ed è così. Le basta quel volto per conquistare. E invece Natalie Portman non è solo quello. È bravissima a mostrare imbarazzo con la sua bocca, con sorrisi un po’ forzati, con movimenti impercettibili dei muscoli facciali. Ma il centro di tutto sono i suoi occhi castani, da cerbiatto, pieni di luce, ma anche e soprattutto di curiosità. Ed è questa la chiave del suo personaggio, e del lavoro dell’attore in generale. I suoi occhi studiano, scrutano, entrano nelle vite degli altri. È allo stesso tempo contenuta e seducente.

Ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro

Sì, ogni artista è un cannibale, ogni poeta è un ladro. Un attore è un artista e un poeta. Ed è così che fa Elizabeth. Alla fine ruba i segreti dell’altra donna, quelli che le sono stati concessi e quelli che non lo sono stati: fate attenzione a quella lettera che, a un certo punto, esce da quel cassetto. E così, insieme a quella scena allo specchio, tutto il film è anche in quel monologo in sottofinale, in cui guarda in macchina. E poi in quel finale, sul set, ormai con il trucco e l’abito di scena. Elizabeth, dopo aver vissuto anche troppo la vita del suo personaggio, la mette in scena. E vuole rifare la scena tre volte. Fino a che raggiunge la perfezione. Fino a che Elizabeth è Gracie. E fino a che Natalie Portman diventa così Julianne Moore. Un cortocircuito, un’attrice che si specchia in un’altra. Un gioco complicato e affascinante.

di Maurizio Ermisino per DailyMood.it

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